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Lingue pianificate tra fantasia e realtà

Lingue pianificate tra fantasia e realtà

Autore: Sara Salis

Data della SM: 09-01-2017

Data FL: 12-01-2017

Numero FL: Florida-00004B-00

Citazione: Salis, Sara. 2017. “Lingue pianificate tra fantasia

e realtà.” Florida-00004B-00, Fiat Lingua,
. ragnatela. 01 December
2017.

Diritto d'autore: © 2017 Sara Salis. This work is licensed under

a Creative Commons Attribution-NonCommercial-
NoDerivs 3.0 Licenza non trasportata.

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riguardo alla LCS, visita http://www.conlang.org/

SCUOLA SUPERIORE PER MEDIATORI LINGUISTICI

“ADRIANO MACAGNO”

Legalmente riconosciuta dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica

DD.DD. del 30 settembre 2005 e del 27 ottobre 2009

TESI DI DIPLOMA

DI

MEDIATORE LINGUISTICO

Equipollente ai Diplomi di Laurea rilasciati dalle Università al termine dei corsi
afferenti alla classe delle

LAUREE UNIVERSITARIE
IN
MEDIAZIONE LINGUISTICA

Lingue pianificate tra fantasia e realtà

RELATORE
Lingua Italiana
Prof. ssa Gonnet Anny Maria

RELATORE
Lingua Inglese
Prof. ssa Daly Sabrina

CANDIDATO
Salis Sara
Matr. N. 2014/P070

ANNO ACCADEMICO 2016-2017

Ringraziamenti

Ringrazio innanzitutto i miei genitori, che mi hanno sempre sostenuta e mi hanno

dato la possibilità di frequentare questa università.

Ringrazio tutti coloro che hanno creduto in me, in particolar modo la mia relatrice,

la professoressa Anny Gonnet, che fin dal primo giorno si è impegnata per rendere

questa tesi un progetto di cui vado molto fiera.

Ringrazio Guida, che ha gentilmente accettato di leggere la mia traduzione in

inglese, insieme alla professoressa Daly.

Ringrazio le amiche conosciute durante questo percorso, che hanno condiviso con

me gioie e dolori dell’università, sessione dopo sessione. In particolare, un grazie a

Jessica che si è rivelata un’amica preziosa, sempre presente e pronta a sostenermi

in tutto.

Un ringraziamento speciale va infine a Emanuele, per essere stato sempre

presente, per avermi spronata durante il cammino e per avermi sostenuta nei

momenti più difficili.

Indice

Introduzione……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………7

Capitolo 1. Lingue pianificate e lingue naturali …………………………………………………………………………….. 11

1.1 Definizioni ………………………………………………………………………………………………………………………………………….. 11

1.2 Lingue pianificate e lingue naturali: confronti ……………………………………………………..15

1.3 Lingue pianificate: classificazione …………………………………………………………………………………. 21

Capitolo 2. Nascita di una lingua …………………………………………………………………………………………………………………. 27

2.1 Processo di nascita e sviluppo di una lingua naturale …………………………………. 27

2.2 Processo di creazione e sviluppo di una lingua pianificata ……………………… 31

2.2.1 Una lingua pianificata per il mondo reale (esperanto) ……………………………….. 33

2.2.2 Una lingua pianificata per la finzione letteraria (alto valyriano)…………. 37

2.2.3 Confronto tra i due processi ……………………………………………………………………………………………….. 42

Capitolo 3. L’alto valyriano e il latino ………………………………………………………………………………………………………. 45

3.1 Evoluzione delle due lingue ………………………………………………………………………………………………… 45

3.1.1 Dal latino alle lingue romanze ………………………………………………………………………………………….. 47

3.1.2. Dall’alto valyriano al basso valyriano …………………………………………………………………………. 55

3.2 Analogie e differenze tra latino e alto valyriano ……………………………………………….. 61

Conclusione ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. 73

Bibliografia ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. 77

Appendice A ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. 81

Introduzione

“Nyke Daenerys Jelmāzmo hen Targārio Lentrot, hen Valyrio Uēpo ānogār iksan.

Valyrio muño ēngos ñuhys issa“. L’idea per questa tesi è scaturita da questa frase in

alto valyriano pronunciata da Daenerys Targaryen, personaggio di una delle più

famose serie televisive degli ultimi anni: Il Trono di Spade. La regina esiliata si

esprime in una lingua inventata, che non viene parlata in nessuna parte del mondo;

eppure,

ascoltando questa e molte altre frasi,

il suo sembra un idioma

estremamente reale, con suoni, grammatica, vocabolario e sintassi specifici.

Dopo aver studiato il modo in cui nascono le lingue e come i fenomeni sociali

influenzino profondamente i fenomeni linguistici, una domanda è sorta spontanea:

se una lingua richiede secoli per formarsi ed è così dipendente da elementi come la

cultura, la storia e la società, com’è possibile creare una lingua dal nulla?

Questo pensiero mi ha incuriosita a tal punto che ho iniziato a documentarmi,

trovando informazioni ancora più interessanti di quanto pensassi. Ho scoperto un

mondo quasi totalmente sconosciuto e più facevo ricerche, più i risultati mi

incuriosivano e creavano altre domande, finché ho ritenuto che potesse essere un

discorso abbastanza importante da poter essere trattato in sede di esame di laurea.

Ho iniziato a questo punto la ricerca di materiale specifico per poter scrivere una

tesi e la risposta alla mia domanda iniziale si è rivelata molto articolata. Infatti,

prima di procedere spiegando il processo di creazione di una lingua pianificata,

sarà opportuno fare chiarezza riguardo alla terminologia corretta da utilizzare

nell’ambito delle lingue inventate.

Nel primo capitolo saranno proposte quindi varie definizioni e verranno presentate

le caratteristiche generali delle lingue, per capire se esse siano condivise sia dalle

lingue naturali sia da quelle inventate. Durante la ricerca di materiale, tuttavia,

sono sorte altre domande: per esempio, le lingue inventate sono tutte relegate

all’ambito letterario? Per poter rispondere, sarà riportata una classificazione delle

varie lingue inventate esistenti, in modo da avere una visione più completa

sull’argomento.

È nel secondo capitolo che sarà presentata la risposta alla domanda iniziale,

7

passando all’analisi del processo di creazione di una lingua inventata e

differenziandolo dal processo di nascita di una naturale. L’enfasi sarà posta, In

particolare, su due lingue artificiali: l’esperanto, una Lingua Ausiliaria

Internazionale (LAI), e l’alto valyriano. Come si avrà modo di leggere nel corso del

capitolo, questi due idiomi sono nati per raggiungere due scopi diversi. Il primo,

creato dal dottor Zamenhof, ha come obiettivo quello di fungere da ponte tra

parlanti di varie lingue europee; questo offre loro la possibilità di comunicare in

una lingua piuttosto semplice e immediata senza dover ricorrere, per esempio,

all’inglese. Il secondo, creato da David J. Peterson, è invece nato con lo scopo di

dare voce a una popolazione immaginaria, senza che si noti, tuttavia, che si tratta di

una lingua inventata. Ho scelto di concentrarmi solo su queste due lingue perché si

può dire che siano una l’opposto dell’altra, sia per lo scopo sia per il metodo di

creazione. Ritengo che, per questo motivo, esse offrano spunti molto interessanti

su cui lavorare.

Nel terzo e ultimo capitolo, si cercherà infine la risposta a un’ulteriore domanda:

una lingua artificiale può essere considerata parimenti dignitosa quanto una

naturale? Si nota una certa semplicità innaturale, dovuta al fatto che quella data

lingua è stata creata anziché essersi sviluppata naturalmente? A tal proposito

verranno confrontate tra loro una lingua naturale tra le più importanti al mondo, il

latino, e la recente lingua che ha dato voce a Daenerys Targaryen, l’alto valyriano.

Non solo saranno confrontate la grammatica, la fonologia e la morfologia, mamma

saranno presi in considerazione anche tutti gli elementi esterni che concorrono a

influenzare una lingua, come la cultura o la storia del popolo. Ho scelto di

confrontare il valyriano con il latino innanzitutto perché le due lingue sono state

messe a confronto più volte nel passato; inoltre, dopo qualche ricerca, ho trovato

parecchi punti in comune tra le due tanto da decidere di analizzarli più

accuratamente per verificare la loro veridicità. Infine, ritengo che se il valyriano

risulterà simile al latino, una delle lingue più importanti e influenti al mondo, allora

questo lo collocherà indubbiamente sul medesimo piano rispetto a una qualunque

lingua naturale. passando all’analisi del processo di creazione di una lingua

inventata e differenziandolo dal processo di nascita di una naturale. L’enfasi sarà

posta, in particolare, su due lingue artificiali: l’esperanto, una Lingua Ausiliaria

8

Internazionale (LAI), e l’alto valyriano. Come si avrà modo di leggere nel corso del

capitolo, questi due idiomi sono nati per raggiungere due scopi diversi. Il primo,

creato dal dottor Zamenhof, ha come obiettivo quello di fungere da ponte tra

parlanti di varie lingue europee; questo offre loro la possibilità di comunicare in

una lingua piuttosto semplice e immediata senza dover ricorrere, per esempio,

all’inglese. Il secondo, creato da David J. Peterson, è invece nato con lo scopo di

dare voce a una popolazione immaginaria, senza che si noti, tuttavia, che si tratta di

una lingua inventata. Ho scelto di concentrarmi solo su queste due lingue perché si

può dire che siano una l’opposto dell’altra, sia per lo scopo sia per il metodo di

creazione. Ritengo che, per questo motivo, esse offrano spunti molto interessanti

su cui lavorare.

Nel terzo e ultimo capitolo, si cercherà infine la risposta a un’ulteriore domanda:

una lingua artificiale può essere considerata parimenti dignitosa quanto una

naturale? Si nota una certa semplicità innaturale, dovuta al fatto che quella data

lingua è stata creata anziché essersi sviluppata naturalmente? A tal proposito

verranno confrontate tra loro una lingua naturale tra le più importanti al mondo, il

latino, e la recente lingua che ha dato voce a Daenerys Targaryen, l’alto valyriano.

Non solo saranno confrontate la grammatica, la fonologia e la morfologia, mamma

saranno presi in considerazione anche tutti gli elementi esterni che concorrono a

influenzare una lingua, come la cultura o la storia del popolo. Ho scelto di

confrontare il valyriano con il latino innanzitutto perché le due lingue sono state

messe a confronto più volte nel passato; inoltre, dopo qualche ricerca, ho trovato

parecchi punti in comune tra le due tanto da decidere di analizzarli più

accuratamente per verificare la loro veridicità. Infine, ritengo che se il valyriano

risulterà simile al latino, una delle lingue più importanti e influenti al mondo, allora

questo lo collocherà indubbiamente sul medesimo piano rispetto a una qualunque

lingua naturale.

9

CAPITOLO 1

Lingue pianificate e lingue naturali

1.1 Definizioni

“Le lingue: insiemi, patrimoni di parole e regole d’uso propri di singole comunità

storiche in determinati periodi”: questa è la definizione data da Tullio De Mauro

(1988/1982, P. 8). L’autore si riferisce ovviamente agli idiomi parlati sulla Terra, il

che forse rende la definizione imprecisa; infatti, anche l’elfico di John Ronald Reuel

Tolkien potrebbe essere considerato una lingua vera e propria. Gli Elfi, nel mondo

fantastico creato dall’autore, sono a tutti gli effetti una comunità storica vivente in

un determinato periodo che si esprime mediante segni linguistici propri.

L’elfico di Tolkien è forse una delle lingue inventate più conosciute al mondo ma ce

ne sono moltissime altre che si potrebbero prendere in considerazione, come la

lingua kēlen, creata da Sylvia Sotomayor per motivi letterari nel 1980; si tratta di

una lingua caratterizzata dall’assenza di verbi e parlata dai Kēleni, popolazione

umanoide del pianeta Tērjemar. Un altro esempio è la lingua ayeri, progetto di

lingua pianificata di Carsten Becker che nell’anno 2003 ha cominciato, per motivi

puramente ludici, a dedicarsi alla codificazione di un linguaggio inventato. Anche il

klingon, ideato da Mark Okrand per Star Trek, è un esempio appropriato e ne

esistono molti altri ancora.

Un’altra lingua inventata, molto recente, è l’alto valyriano, pianificato insieme al

dothraki dal linguista David J. Peterson per la serie televisiva Il Trono di Spade,

basata sui libri dello scrittore americano George R.R. Martin Le Cronache del

Ghiaccio e del Fuoco.

Come l’elfico, l’alto valyriano è una lingua che non appartiene al nostro mondo ma

che viene parlata e scritta a Essos, il Continente Orientale nel quale si svolge parte

11

della storia raccontata della serie televisiva. Le differenze tra le lingue citate sopra

e quelle parlate sulla Terra, dette naturali, sono molteplici; ciò che differenzia

maggiormente le une dalle altre è chiaramente la loro origine in quanto essa

determina il loro futuro sviluppo. Le lingue pianificate sono frutto di un atto di

creazione consapevole e condividono quindi caratteristiche simili tra loro; tuttavia,

esse non sono soggette a continue variazioni grazie all’opera dei parlanti, come

succede per le lingue naturali. Queste ultime, infatti, subiscono varie evoluzioni nel

corso del tempo, fino a divenire come le conosciamo oggi. Si intende quindi per

lingua naturale una qualunque lingua esistente al mondo che sia nata

spontaneamente e abbia subito fasi di evoluzione perché soggetta a variazioni e

mutamenti, vale a dire qualsiasi lingua parlata (Peterson, 2015). Silvia Luraghi

(2006/2013) puntualizza inoltre che essa deve essersi sviluppata in una comunità

di parlanti, essere trasmessa tra le generazioni, essere appresa quindi come lingua

materna, di prima socializzazione, dai nuovi parlanti.

Tornando alla definizione di lingua, per considerare dunque l’elfico, l’alto valyriano

o il dothraki come lingue, potremmo parlarne in senso lato come di un complesso

sistema di comunicazione.

La comunicazione verbale umana avviene

correttamente nel momento in cui l’emittente che lancia il messaggio linguistico e il

ricevente che lo interpreta condividono un codice, grazie al quale è possibile

attribuire un significato alla realtà.

Per codice s’intende dunque […] l’insieme di corrispondenze, fissatesi per

convenzione fra qualcosa (insieme manifestante) e qualcos’altro (insieme

manifestato) che fornisce le regole d’interpretazione dei segni. Tutti i

sistemi di comunicazione sono dei codici […]. I segni linguistici

costituiscono il codice lingua (Berruto & Cerruti, 2011, P. 7).

È necessario specificare che esistono vari tipi di codice con caratteristiche che li

rendono estremamente diversi tra loro. Per esempio una lingua come l’italiano è

diversa dal linguaggio matematico, pur essendo entrambi codici; l’italiano è dotato

infatti, come tutte le lingue, di proprietà specifiche quali l’onnipotenza semantica,

la plurifunzionalità e la riflessività. L’onnipotenza semantica indica la capacità della

lingua di esprimere qualsiasi contenuto; con plurifunzionalità s’intende la

possibilità di adempiere a molte funzioni diverse; la riflessività, o funzione

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metalinguistica, è infine la capacità della lingua di riflettere su se stessa. Inoltre il

codice linguistico è vivo e in continuo divenire varia nella dimensione diacronica a

opera dei parlanti, che ne possono modificare le regole. Le regole del codice

matematico, invece, non sono modificabili. L’uso di un codice linguistico è creativo,

l’uso del codice matematico non lo può essere; il parlante è colui che garantisce la

vitalità di un codice linguistico e contribuisce a creare e mantenere le varianti

oppure a decretarne l’abbandono. Colui che usa il codice matematico ne condivide

le regole, ma non può modificarle.

Un altro termine utilizzabile per definire le lingue è quello di “lingue reali”, che

comprende sia quelle naturali sia quelle pianificate, in quanto entrambe esistono e

sono nate o sono state create nel nostro mondo. Tuttavia, per non focalizzare

l’attenzione esclusivamente sull’esistenza reale o meno di una lingua, occorre

sottolineare che storia ed evoluzione di un idioma nato naturalmente e parlato da

secoli sono diverse da quelle di un idioma che è stato creato artificialmente. L’alto

valyriano, essendo una finzione, non ha subito i vari mutamenti come di solito

accade con le lingue naturali; esse sono infatti soggette a molti cambiamenti nel

corso del tempo (mutamento diacronico), tanto che, evoluzione dopo evoluzione,

ne possono anche nascere di nuove (basti pensare al passaggio dal latino alle

lingue romanze).

Per definire dunque in modo preciso un idioma come l’alto valyriano,

differenziandolo però da quelli del nostro mondo, occorre scegliere il modo

migliore, tra le varie proposte che troviamo in letteratura, con il quale possiamo

riferirci a esso.

A tale proposito, le tre che paiono essere più interessanti sono le seguenti:

 Lingua pianificata: “Sistema linguistico completo definito per iscritto da un pia-

nificatore linguistico, detto glottoteta, per i fini più diversi”, come la definisce

Gobbo (2009, P. 70);

 Lingua artificiale: “Lingua costruita consciamente per mezzo di una serie di con-

venzioni sia nelle regole che nel lessico”, come viene definita in Aga Magéra Di-

fúra (Albani & Buonarroti, 1994/2011, P. 46);

 Lingua immaginaria: “Sistema di segni, spesso non codificati, appartenente ad

una comunità o popolo inesistenti, elaborato per fini non pratici, ma puramente

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ludico-espressivi” (Albani & Buonarroti, 1994/2011, P. 194).

Ciascuna di queste definizioni è importante, poiché ci fornisce informazioni

diverse; la prima, oltre a specificare il concetto di lingua pianificata, introduce la

figura del glottoteta, diverso dal linguista in quanto quest’ultimo non crea le lingue,

bensì le studia scientificamente. Non necessariamente un glottoteta si occupa di

linguistica a livello professionale; alcune Lingue Ausiliarie Internazionali (che

saranno trattate più avanti) sono infatti state create da glottoteti che erano medici,

ingegneri, matematici o sacerdoti. La definizione specifica, inoltre, che una lingua

può essere creata per diversi fini, siano essi filosofici, di gioco, religiosi, letterari,

linguistici o scientifici; nel caso dell’alto valyriano, il fine è letterario.

La seconda definizione permette di distinguere le lingue artificiali da quelle

naturali in quanto queste ultime, come specificato in precedenza, sono frutto di

un’evoluzione; le convenzioni non sono quindi stabilite consapevolmente da

qualcuno, mentre per gli idiomi artificiali è compito del creatore, o dei creatori,

elaborare consciamente queste convenzioni.

La terza infine spiega che una lingua immaginaria, creata esclusivamente per un

fine ludico, appartiene a una comunità anch’essa immaginaria.

Tra le tre denominazioni, pur essendo tutte condivisibili, quella di “pianificata” è la

più adeguata in quanto descrive in modo esauriente tutte le caratteristiche

fondamentali di questo tipo di lingue. Per questo motivo è quella che verrà

utilizzata in questa trattazione, imitando la scelta di Federico Gobbo (2009, P. 70) il

quale ritiene che questa sia la terminologia più adatta nonostante esistano appunto

varie denominazioni.

Finora l’attenzione è stata posta unicamente sulle lingue pianificate appartenenti a

comunità inesistenti, i cui creatori hanno perseguito un fine letterario. Tuttavia,

secondo la definizione di lingua pianificata, è possibile che un glottoteta si ponga

come fine quello linguistico. Esistono infatti idiomi pianificati creati per essere

parlati e scritti in questo mondo da comunità esistenti, chiamati Lingue Ausiliarie

Internazionali (LAI), cioè “lingue per facilitare le relazioni scritte e orali tra

persone di lingue materne diverse” (Albani & Buonarroti, 1994/2011, P. 49)

oppure LIA, come preferisce definirle Umberto Eco.

Una LAI deve soddisfare determinate esigenze: innanzitutto non deve essere una

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delle lingue nazionali già esistenti poiché, se così fosse, si favorirebbero i parlanti

della stessa. Essa deve essere, al contrario, il più neutra possibile, come afferma

Umberto Eco (1996/2006), riferendosi ai progetti di Lingue Internazionali

Ausiliarie fioriti agli inizi del XX secolo: “[…] analoga a quelle naturali, mamma […]

sentita come neutra da tutti i propri utenti” (p.342). Non deve neanche essere una

lingua morta come il latino, nonostante ci sia stato un tentativo, fallito, di riportarlo

in vita con qualche modifica. Questo progetto ha il nome di Latino sine Flexione ed è

stato portato avanti dal matematico Giuseppe Peano, nel 1903, il quale lo

proponeva come lingua esclusivamente scritta e per la comunicazione scientifica,

come afferma Federico Gobbo (2009). Si trattava, come ricorda Umberto Eco

(1996/2006), di un latino semplificato, privo di declinazioni, per cui “[…] come per

altre lingue internazionali, […] vale la prova del consenso delle genti: il Latino sine

flexione non si è diffuso e rimane […] come mero reperto storico” (P. 348). Un’altra

esigenza di una LAI è quella di “essere capace di servire alle relazioni abituali della

vita sociale, agli scambi commerciali e ai rapporti scientifici e filosofici” (Albani &

Buonarroti, 1994/2011, P. 49). Infine, essa deve “essere di facile acquisizione per

tutte le persone d’istruzione elementare media e in particolare per le persone di

civilizzazione europea” (P. 49). Questa esigenza ha causato vari problemi per

quanto riguarda molti progetti di LAI proposti; è difficile realizzare una lingua di

facile apprendimento per tutti senza favorire una parte dei parlanti e senza

compiere scelte che rischiano di distruggerla. Un esempio è dato da ciò che è

accaduto al volapük, lingua creata dal tedesco Johann Martin Schleyer. Egli aveva

preso l’inglese come modello su cui basare la propria lingua pianificata; tuttavia,

per rendere l’apprendimento più semplice ai cinesi, aveva deciso di rimuovere la

“r” perché per loro tale lettera sarebbe stata molto difficile da pronunciare. In

questo modo però la lingua è diventata ardua da capire e apprendere anche per gli

europei, dunque il progetto non si è ulteriormente sviluppato, come specifica

Federico Gobbo (2009).

1.2 Lingue pianificate e lingue naturali: confronti

Dopo aver fatto chiarezza sulla terminologia più adatta da utilizzare, è bene cercare

di capire se una lingua pianificata possa essere considerata allo stesso livello di una

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naturale; per fare ciò occorre chiarire se ci sono punti in comune tra loro.

Una prima differenza è già stata individuata in precedenza: l’origine. Mentre le

lingue naturali sono frutto di un processo di evoluzione della durata di secoli, le

pianificate nascono dall’atto di creazione del loro inventore. La ricerca di

caratteristiche comuni tra i due tipi di lingue, però, in questa parte della

trattazione, sarà più dettagliata; in particolare verranno esaminate le proprietà

generali delle lingue, ovvero gli attributi che ogni idioma possiede.

Antonio Romano (2010) spiega in che cosa consistano queste proprietà generali;

prima, però, fa una breve introduzione nella quale spiega che qualunque sistema

linguistico si prenda in considerazione avrà delle componenti di base che si

potranno ritrovare in tutti gli altri: fonologia, morfologia, sintassi e lessico. È

importante sottolineare che egli prende in considerazione solo le lingue naturali e

non quelle pianificate: sarà dunque mio compito capire se ciò che lui scrive sia

valido anche per queste ultime.

La prima proprietà che l’autore descrive è la plurifunzionalità linguistica (già

accennata in precedenza), che consiste nella possibilità della lingua di poter essere

utilizzata per parlare di ogni cosa, anche di se stessa (proprietà metalinguistica). Per

quanto riguarda le lingue naturali, la conferma dell’esistenza di questa proprietà

avviene ogni giorno, in quanto i parlanti conversano intorno a vari argomenti e, In

qualche modo, riescono sempre a esprimere ciò che vogliono dire. È importante

notare che alcuni idiomi sono più precisi di altri: per esempio in inglese troviamo il

verbo to look up del quale, se preso in una certa accezione, in italiano non esiste un

corrispettivo. Tuttavia si può rendere il senso utilizzando la frase “fare una breve

visita a”. Differenze di questo genere si ritrovano anche in altri casi, spesso dovute

all’ambiente circostante e alla cultura del popolo. Prendendo in considerazione due

dialetti italiani, il piemontese e il siciliano, emergeranno infatti varie differenze

linguistiche legate all’ambiente. Piemonte e Sicilia si trovano uno all’estremo nord e

l’altra all’estremo sud dell’Italia, cioè a latitudini molto distanti tra di loro, dunque

sono interessati da fenomeni atmosferici molto diversi tra loro. In piemontese ci

sono vari modi di denominare la neve: fioca, per esempio, è un termine che indica la

neve in generale, mentre patarass si riferisce in particolare alla neve tipica degli inizi

16

di marzo. In siciliano non troveremo questa differenza di termini così specifica, mamma

sarà più facile incontrare diverse parole per definire il mare.

Per quanto riguarda le lingue pianificate, anch’esse sono caratterizzate da

plurifunzionalità linguistica, qualunque sia lo scopo della loro creazione. Se una

LAI non avesse questa proprietà sarebbe incompleta, dunque non sarebbe utile a

favorire la comunicazione internazionale. Riguardo invece le lingue pianificate per

mondi immaginari, come l’alto valyriano, bisognerà spendere qualche parola in più.

Essendo costruite per popoli inesistenti, che vivono in luoghi inesistenti e con una

cultura inesistente, queste lingue possono sembrare, di primo acchito, incomplete;

nel dothraki, per esempio, manca la parola “grazie”, ma questo non significa che

esso sia davvero incompleto. In siciliano non esiste un termine che indichi “la neve

tipica di marzo”, ma questo dialetto viene comunque considerato completo in

quanto in Sicilia questa parola non è necessaria. Anche al dothraki, allora, non

mancano parole fondamentali alla comunità per esprimersi, perché quelle che

possiede sono sufficienti alla comunicazione tra i parlanti. Nel caso della differenza

prima citata tra piemontese e siciliano, siamo in una situazione legata all’ambiente

e al fatto che i dialetti regionali italiani, pur essendo tutti idiomi romanzi

(neolatini), sono diversi tra loro. Tale diversità è dovuta alla storia linguistica

italiana: essa ha prodotto molte varietà di parlate, la cosiddetta Babele italica,

causata dalle vicende sociali, politiche e culturali della penisola, in cui la realtà e

cultura, collegate dalla tradizione latina, sono state però segnate da divisioni e

allontanamenti (Gensini 1988/1992). I dialetti sono lingue parlate a livello locale

da comunità di parlanti che, al di là delle differenze regionali, condividono lo stesso

codice linguistico, quello dell’italiano standard. Per quanto riguarda invece la

differenza tra dothraki e alto valyriano, parliamo di due codici diversi parlati da

due distinte comunità che vivono nello stesso continente e nello stesso arco

temporale, ma che sono costituite da due società diverse caratterizzate da culture

differenti. In alto valyriano, per esempio, esiste un termine per ringraziare

(kirimvose). Tale lingua è stata creata per lo stesso mondo fantastico di parlanti

dothraki, con la differenza che il popolo di Valyria ha un livello culturale

estremamente alto, a differenza del popolo dei Signori del Cavallo (altro nome per

indicare il popolo dei dothraki), in quanto la loro cultura ruota interamente attorno

17

a questi animali. Questo si riflette anche sulla lingua; per tradurre, per esempio,

“sono già stata qui” si userà il verbo dothralat, cioè cavalcare, e non essere, per cui

la frase tradotta letteralmente sarà “ho già cavalcato qui”, (anha ray dothra jinne

hatif ajjin). Continuando il ragionamento sulla mancanza di espressioni linguistiche

di cortesia in dothraki, evidentemente ciò è dovuto al fatto che, nella loro rozza

società, non sono previsti né cortesie né ringraziamenti.

Un’altra proprietà delle lingue è l’universalità: come scrive Romano (2010), ciò

significa che “non esiste […] gruppo umano, per quanto piccolo e/o isolato, che non

usi un sistema di comunicazione verbale (orale)" (P. 27). L’autore parla di “gruppi

umani” quindi, nonostante egli si riferisca solo agli uomini viventi sul pianeta Terra,

la sua spiegazione si può perfettamente adattare a qualunque essere umano

vivente in qualunque luogo. I Valyriani, pur essendo un popolo immaginario, sono

comunque persone e l’essere persona implica che si utilizzi un sistema di

comunicazione verbale orale, così come l’esistenza di una data lingua implica che

essa sia la forma di espressione di un popolo. Un idioma infatti non avrebbe senso

di esistere se non fosse utilizzato, anche in un mondo immaginario, da un popolo o

da una comunità.

Nel caso in cui uno scrittore volesse inventare una storia fantascientifica

ambientata nello spazio, con degli alieni come protagonisti, potrebbe avvalersi del

fatto che essi non sono umani; pertanto, potrebbero avere un sistema di

comunicazione diverso. Per esempio, sarebbe plausibile che le loro interazioni

potessero avvenire a un livello puramente mentale. A questo punto un qualsiasi

sistema linguistico orale sarebbe inutile, in quanto per la comunicazione sarebbe

sufficiente la mente, cosa che non può avvenire con gli umani, i quali necessitano di

un codice linguistico condivisibile per esternare i loro pensieri.

Parlando di universalità, l’autore specifica tra parentesi che il sistema di

comunicazione utilizzato dai gruppi umani per esprimersi è orale: perché non

scritto? La risposta porta alla terza proprietà delle lingue, ovvero la priorità del

parlato; infatti, mentre la comunicazione orale è usata da ogni essere umano, ciò

non vale per quella scritta. La veridicità di questa affermazione si può dimostrare

anche solo pensando alla storia. Quando nacque la scrittura gli uomini esistevano

ormai da migliaia di anni, ma ciò non significa che prima della scrittura essi non

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fossero in grado di comunicare tra loro; semplicemente utilizzavano un sistema

esclusivamente orale o gestuale per interagire.

In questo caso per quanto riguarda le lingue pianificate c’è una differenza in quanto

esse si comportano esattamente al contrario: inizialmente il glottoteta scrive la

struttura della lingua e solo in seguito essa potrà dare voce a una comunità.

Affermando che un idioma può avere sia una versione orale che una scritta, è stata

individuata un’altra proprietà: la trasponibilità di mezzo, ovvero la possibilità di

trasporre la produzione verbale di ogni sistema linguistico secondo codici scritti e

viceversa. Le regole da rispettare per eseguire quest’operazione variano da lingua a

lingua: in italiano, per esempio, a ogni lettera corrisponde un suono. Venire

affermano G. Berruto e M. Cerruti (2011), alcuni sistemi di scrittura, tra cui quello

italiano, si basano sull’inventario fonematico della lingua stessa e “l’ortografia

dell’italiano […] riproduce le unità fonologiche con una certa fedeltà.

Ciononostante, non mancano casi in cui il rapporto biunivoco tra i suoni e i grafemi

viene a mancare” (P. 54). Succede quindi che esistano dei suoni la cui

rappresentazione grafica in italiano non è prevista (esempi: /e/~ /Ɛ/ , /o/~ /ͻ/) e

che lo stesso grafema serva a rappresentare fonemi diversi (es. “accétta” [aʹtː⨛etːa]

~ “accètta”[aʹtː⨛Ɛtːa]), o che occorrano combinazioni di grafemi per rappresentare

delle opposizioni fonematiche come, per esempio, “ch” e “gh” davanti a “i” ed “e”

(“china” [ʹkiːna] ~ “Cina” [ʹt∫iːna]), oppure che grafemi diversi rappresentino lo

stesso suono come “c”, caro, [ʹkaːro] e “q”, quadro [ʹkwaːdro]. Anche in russo, per

esempio, a ogni lettera corrisponde un suono. Al contrario, ciò non vale per

l’inglese o il francese la cui grafia è piuttosto lontana dalla fonia, per cui i suoni

corrispondono a sequenze di lettere e le lettere non sempre hanno delle

corrispondenze foniche. Di conseguenza, per tali lingue, le regole da seguire per

pronunciare correttamente le parole sono piuttosto complicate.

Nelle lingue pianificate questa proprietà è scontata in quanto, come già spiegato,

per esse c’è una priorità dello scritto sul parlato e non il contrario, dunque

ovviamente una volta scritto l’idioma si potrà iniziare a parlarlo.

Un’altra caratteristica ancora di cui parla Antonio Romano (2010) è il

distanziamento; grazie a questa proprietà è possibile comunicare con altri esseri

19

umani anche intorno a referenti che non sono presenti nello spazio fisico in cui ha

luogo la conversazione o che si svolgono in un tempo cronologicamente lontano dal

momento conversazionale. Per parlare di un albero, non siamo costretti a indicarne

uno in modo da far capire al nostro interlocutore ciò a cui ci stiamo riferendo,

poiché lui sa che la parola “albero” si riferisce a qualcosa di preciso e, al solo

sentirla nominare, nella sua mente prenderà forma la sua idea di albero. Se non

scatta questo meccanismo, vuol dire che l’interlocutore non conosce il significato

della parola; sarà sufficiente spiegargli a che cosa essa si riferisce o fornirgli la

traduzione in una lingua che egli conosce affinché gli sia chiaro il concetto. Tutto

ciò è ovviamente possibile anche con le lingue pianificate: l’unica condizione

necessaria è sapere a che cosa pensare nel momento in cui ascoltiamo un dato

termine. A questo punto vale però la pena fare un breve accenno a un importante

glottologo che ha rivoluzionato la linguistica: Ferdinand de Saussure. È importante

citarlo in questo momento in quanto egli ci fornisce, come ricordano Berruto e

Cerruti (2011), i principi della nuova linguistica, chiamata generale, grazie al Cours

de linguistique générale; si tratta di un’opera postuma in cui i suoi studenti

dell’Università di Ginevra raccolsero, nel 1916, le sue lezioni. A partire da tali

principi, è possibile sottolineare una distinzione che farà più chiarezza sulla

proprietà linguistica del distanziamento.

Come puntualizzano Romano e Miletto (2010), De Saussure afferma che i segni

linguistici (ovvero gli elementi che due interlocutori si scambiano durante una

conversazione) possiedono due facce: il significante e il significato. Il primo è il lato

più materiale, il supporto del messaggio, e può essere vocale (costituito dai suoni

che gli interlocutori emettono), oppure alfabetico (basato sui grafi e sui grafemi). Il

secondo è immateriale e rimanda al concetto che la parola vuole trasmettere. È

proprio grazie a quest’ultimo che è possibile il distanziamento in quanto le parole,

tramite il loro aspetto fisico (il significante) rimandano a un concetto in particolare

(il significato), dunque possono essere comprese anche senza che l’interlocutore

abbia a portata di mano o sott’occhio il referente designato.

Infine, un’altra importante proprietà delle lingue è la trasmissibilità culturale:

come affermano Berruto e Cerruti (2011), consiste semplicemente nella capacità

delle comunità umane di trasmettere per tradizione alle generazioni future la

20

propria lingua. Di nuovo, è un discorso applicabile alle “comunità umane”, il che lo

rende quindi valido anche per le lingue pianificate in quanto, seppure in un mondo

fittizio, esse sono parlate da esseri umani tanto quanto le lingue naturali.

1.3 Lingue pianificate: classificazione

Fino a qui sono stati trattati due tipi di lingue pianificate: quelle costruite per scopi

letterari e le LAI, inventate invece con il fine di agevolare le conversazioni

internazionali e il dialogo universale, come ricordano Berruto e Cerruti (2011).

Esistono però anche altri motivi per cui questi idiomi vengono plasmati, a seconda

dei quali essi assumono caratteristiche diverse. Dunque per fare un po’ d’ordine

occorre classificare i vari tipi di lingua pianificata.

Esistono diversi modi per farlo, ognuno dei quali permette di concentrarsi

maggiormente su un aspetto in particolare: adottando per esempio una

classificazione in ordine cronologico, si presterà maggiore attenzione ai vari

contesti storici in cui le lingue in questione sono state sviluppate e alla loro

evoluzione nel tempo. Un’altra classificazione possibile prende in considerazione

gli idiomi a seconda del fine per cui sono stati creati; essendo il tipo di

catalogazione che offre una visione più completa sulle varie tipologie di lingue, è

dunque quella presentata e analizzata qui di seguito.

Prima però è necessaria una premessa per spiegare la differenza tra lingue

cosiddette a priori, a posteriori e miste, secondo la letteratura (Gobbo, 2009;

Albani & Buonarroti, 1994/2011).

 Una lingua a priori è un idioma completamente a sé stante, che viene cioè creato

senza prendere spunto da quelli naturali;

 Una lingua a posteriori è esattamente l’opposto, ovvero è un idioma che viene

pianificato basandosi su fonologia, grammatica, sintassi e/o altre caratteristiche

di una lingua naturale;

 Una lingua mista è un idioma pianificato che si ricava in parte basandosi su uno

naturale, in parte creandolo dal nulla.

Chiarite queste tre differenze, per esemplificare la classificazione delle lingue

pianificate possono essere utili lo schema che segue, elaborato a partire dal

21

modello riportato in Aga Magéra Difúra (Albani & Buonarroti, 1994/2011, pp. 12-

13) e la sua successiva analisi.

Figura 1: Classificazione delle lingue pianificate – Schema rielaborato da Aga Magéra Difúra (Albani

& Buonarroti, 1994/2011, pp. 12-13)

Quando si studia una lingua pianificata, uno dei primi suoi aspetti da considerare è

il motivo per cui è stata creata, in quanto il fine determinerà, insieme ad altri

fattori, il risultato finale. Ecco dunque che si distinguono lingue sacre e non sacre;

come specificano Albani e Buonarroti (1994/2011), le prime permettono la

comunicazione con il divino, mentre le altre rientrano nella “tipologia che

comprende da un lato i progetti per la comunicazione a scopo sociale e dall’altro le

sperimentazioni più o meno artistiche motivate da un puro gioco espressivo” (p.8).

22

Facendo un breve accenno alle prime, le quali non saranno più trattate in seguito,

esse si suddividono in strutturate, come il balaibalan, e non strutturate, come le

glossolalie. Il balaibalan è una lingua pianificata creata negli ambienti mistici

islamici attorno al XV secolo, probabilmente da uno sceicco arabo. Quest’idioma è

considerato completo in quanto possiede una propria grammatica, una propria

sintassi e un proprio lessico, le cui parole sono per lo più di origine persiana e

turca. Alessandro Bausani la considera “la prima vera e propria lingua inventata del

mondo colto” (Bausani, 1954; Bausani, 1974, pp. 89 – 97, citato da Albani &

Buonarroti, 1994/2011, p.55). Le glossolalie sono invece pseudo-lingue inventate

semplicemente accostando tra di loro parole prive di senso; in ambito sacro e

religioso, come ci ricordano Albani e Buonarroti (1994/2011), si considerano

glossolalie i modi di parlare dei profeti in quanto essi non scelgono personalmente

le parole ma sono guidati in questo dallo Spirito Santo ed essi stessi non

comprendono ciò che dicono. Per il cristianesimo, la glossolalia è quindi un dono

grazie al quale il fedele ha la possibilità di parlare una lingua a lui sconosciuta.

Esempi di glossolalie sono preghiere di appartenenti al movimento religioso dei

pentecostali, oppure di missionari in tempi passati, oppure di medium in stato di

trance.

Anzi, le lingue non sacre possono essere create a scopo di comunicazione

sociale o di gioco; siccome a entrambe queste categorie appartengono molti esempi

di lingue pianificate, è stata effettuata una selezione analizzando solo quelli ritenuti

più importanti.

Tra gli idiomi creati a scopo di comunicazione sociale, troviamo linguaggi ibridi

(per esempio i pidgin), le crittografie, i linguaggi abbreviati (stenografie), io

linguaggi logico-matematici e le LAI, già accennate in precedenza. Queste ultime

possono essere definite a priori, a posteriori o miste. Tra quelle a priori troviamo le

lingue filosofiche, ovvero sistemi di segni convenzionali che hanno lo scopo di

eliminare le ambiguità e gli equivoci prodotti dagli idiomi naturali; per questo

motivo vengono spesso associate al termine “lingua perfetta” come ricorda

Umberto Eco (1996/2006): “[…] il sogno di una lingua perfetta è duro a morire, e

non mancano nel settecento progetti compiuti di lingue universali” (P. 315).

Cambiando categoria, troviamo le lingue a posteriori: un esempio molto conosciuto

23

è l’esperanto, lingua creata da Lejzer Ludovik Zamenhof a fine ‘800. Questo famoso

progetto di LAI è basato sulle lingue romanze, germaniche e slave, il che lo rende

appunto una lingua a posteriori, e ha avuto molto successo. Siccome tale lingua

sarà trattata più nello specifico in seguito, verrà ora presentato l’ultimo tipo di LAI:

le lingue miste, come il volapük. Anch’esso progetto di lingua internazionale e nato

quasi in concomitanza con l’esperanto, non condivide il suo successo in quanto è

risultato troppo complicato da comprendere ed è stato quindi abbandonato. È

considerato un sistema misto in quanto si basa su inglese, tedesco e lingue latino-

romanze, ma possiede anche una caratteristica tipica degli idiomi a priori, ovvero

la scelta del suo creatore, Johann Martin Schleyer, di eliminare la “r” (cfr. cap. 1).

Successivamente, si trovano i linguaggi logico-matematici (o linguaggi di

programmazione), anch’essi creati a scopo di comunicazione sociale. Si tratta di un

“insieme di caratteri che formano parole, espressioni, frasi e aggregati più ampi”

(Albani & Buonarroti, 1994/2011, P. 340) utilizzato in ambito informatico. Questi

particolari linguaggi sono caratterizzati da non ambiguità ed eseguibilità e hanno

una sintassi precisa e severa. Alcuni esempi sono il COBOL (COmmon Business

Oriented Language), codice creato nel 1959 con una grammatica molto vicina alla

lingua naturale inglese in quanto pensato appositamente per applicazioni in

ambito amministrativo e commerciale, o il più recente Java, emerso nel 1995 e più

“distante” dall’inglese nonostante questa lingua rimanga ancora alla sua base.

In seguito, troviamo i linguaggi abbreviati, ovvero sistemi di segni che svolgono la

funzione di surrogati linguistici delle lingue naturali. Un esempio molto comune

sono gli acronimi o le sigle come etc., prof., o UNESCO, ma rientra in questa

categoria anche la stenografia, una scrittura veloce e sintetica che si avvale di segni

e abbreviazioni per formulare parole. L’invenzione di questo codice è attribuita a

Marco Tullio Tirone, il quale utilizzò un sistema simile per annotare in modo

rapido le orazioni del suo patrono Marco Tullio Cicerone.

In qualche modo simile alla stenografia abbiamo la crittografia, ovvero la scrittura

segreta, utilizzata ovviamente per produrre un messaggio comprensibile solo a chi

conosca il codice utilizzato.

L’ultima voce da prendere in esame per quanto riguarda le lingue create a scopo di

comunicazione sociale è quella dei linguaggi ibridi: essi sono il risultato di una

24

miscela di varie lingue tra loro. L’esempio più comune è costituito dalle lingue

pidgin e creole, nate nel periodo del commercio triangolare e della tratta degli

schiavi. Esse sono frutto del contatto tra due o più idiomi diversi quali le lingue

degli schiavi, le lingue dei nativi e una lingua coloniale come spagnolo, portoghese,

francese, olandese, o inglese; la lingua coloniale è considerata “lessificatrice” per la

sua forte influenza sulla nuova lingua che sta nascendo. La differenza principale tra

pidgin e creolo è che quest’ultimo deriva dal primo; entrambi hanno origine

dall’incontro di varie lingue, ma nel momento in cui il pidgin inizia a essere parlato

dai nati delle nuove generazioni e la grammatica fortemente semplificata si evolve

verso forme più complesse, esso sarà definibile creolo. Nonostante questa

evoluzione, tuttavia, la lingua continuerà a rimanere piuttosto semplice. Alcune

località in cui si parlano oggi varietà di creolo, come specificano Albano e

Buonarroti (2011) sono le isole di Capo Verde, Haiti, le Antille o le isole Mauritius e

La Réunion.

Infine, troviamole lingue non sacre create per scopo di gioco o espressivo: le più

diffuse sono quelle artistico-letterarie, che si sviluppano non solo in ambito

letterario, ma anche nel cinema, nel teatro, nella musica o anche nei fumetti. Di

solito sono idiomi creati per i generi fantasy o fantascientifico, in quanto danno

voce ad alieni o a comunità che vivono in luoghi immaginari. Due esempi già citati

sono il klingon e l’alto valyriano: entrambi creati per il cinema, hanno anche dei

testi a loro dedicati e sono dotati di sintassi e fonologia proprie e lessico specifico.

È importante notare che esso risulta molto diverso dall’una all’altra poiché l’alto

valyriano è utilizzato in un mondo fantasy ambientato in una sorta di Medioevo,

mentre il klingon è parlato da una razza aliena capace di costruire navicelle per

viaggiare nello spazio.

Queste sono le principali tipologie di lingue inventate esistenti; ce ne sarebbero

tantissime altre di cui parlare e per ognuna di esse si potrebbe scrivere un libro per

scendere nei particolari e analizzarla in modo preciso. Per questa trattazione si è

scelto di considerare soltanto l’alto valyriano poiché la serie televisiva Il Trono di

Spade è ormai molto seguita a livello mondiale, ma raramente i suoi fan prestano

attenzione al discorso linguistico, nonostante esso sia molto interessante da

studiare approfonditamente e offra diversi spunti di riflessione.

25

CAPITOLO 2

Nascita di una lingua

2.1 Processo di nascita e sviluppo di una lingua naturale

Le lingue naturali sono frutto di numerosi mutamenti che si verificano nel corso

del tempo. Quelle pianificate, invece, sono create da uno o più inventori. In questo

capitolo sarà presentata l’analisi del modo in cui si verificano i mutamenti

linguistici e le conseguenze che ne derivano. Questi cambiamenti non avvengono

mai in modo improvviso, ma necessitano di molto tempo per affermarsi (Luraghi,

2006/2013). Difatti, i parlanti non si rendono conto che la loro lingua si sta

lentamente evolvendo; saranno i posteri ad accorgersi dei mutamenti avvenuti nei

secoli che, talvolta, possono portare alla nascita di una nuova lingua. Questo

fenomeno è denominato “variazione diacronica” ed è oggetto di studio della

linguistica storica, che si occupa di studiare i cambiamenti delle lingue nel tempo e

le modalità in cui essi avvengono (Berruto & Cerruti, 2011).

Il mutamento linguistico può essere causato da diversi fattori, interni ed esterni

alla lingua stessa, fattori che possono essere di tipo ambientale, sociale, storico,

culturale, politico, demografico. I mutamenti possono essere di diversi tipi e

riguardare il suono, la morfologia, la sintassi, il lessico. Dal punto di vista fonetico,

avvengono,

per esempio,

fenomeni di assimilazione o dissimilazione.

L’assimilazione avviene quando un fono assume i tratti di un fono vicino e i due

foni diventano simili o uguali; per esempio, il latino noctem si è trasformato

nell’italiano notte, in cui la occlusiva velare sorda [k] diventa dentale come la [t],

occlusiva dentale sorda. La dissimilazione avviene quando in una parola due foni

simili o uguali non contigui diventano diversi come è successo, per esempio, nel

passaggio dal latino venenum all’italiano veleno.

I mutamenti morfologici hanno fatto sì che, nel passaggio dal latino all’italiano,

27

cadessero i casi e il genere neutro. Il mutamento sintattico riguarda l’ordine dei

costituenti della frase. In latino l’ordine è soggetto-oggetto-verbo; nelle lingue

romanze l’ordine è soggetto-verbo-oggetto. Il mutamento lessicale avviene con

fenomeni di arricchimento del lessico, che possono verificarsi in vari modi: con

l’ingresso nella lingua di neologismi, cioè di nuovi lessemi, oppure con i

meccanismi che permettono la formazione di parole nuove, come la derivazione o

la composizione. Un ulteriore possibilità è l’apporto da altre lingue, che può

avvenire sotto forma di prestito o di calco. I lessemi si possono anche perdere, con

il passare del tempo. Alcune parole latine sono state abbandonate, come cunctus

(tutto intero); anche alcune parole italiane sono state abbandonate nel corso del

tempo come, per esempio, la parola donzello (Berruto & Cerruti, 2011).

Oltre a quella diacronica, esistono altre dimensioni di variabilità che influenzano

anch’esse lo sviluppo delle lingue. La variazione diatopica consiste nella presenza

di varianti linguistiche in relazione allo spazio. In Italia, per esempio, esistono

diversi modi per definire lo stesso oggetto. Si tratta di varietà regionali dal punto di

vista lessicale. Per esempio, l’appendiabiti può essere chiamato “attaccapanni”,

oppure “ometto”, oppure “appendino”, a seconda del luogo geografico di

riferimento.

Esistono anche delle varietà grammaticali che riguardano l’uso dei tempi e dei

modi verbali come, per esempio, l’uso del passato remoto o del congiuntivo nelle

varie regioni del nord, del centro e del sud Italia. Inoltre, esistono delle varietà

fonologiche, soprattutto per quanto riguarda i dialetti.

La variazione diafasica riguarda invece le varianti in base al contesto d’uso della

lingua. In ogni idioma si possono distinguere vari registri, quelli formali e quelli

informali, e in ciascuno di essi i parlanti si esprimono in modo diverso. In italiano,

per esempio, il verbo “fare” in un contesto formale è spesso sostituito dal sinonimo

“effettuare”; pur non cambiando il significato, il secondo verbo è più adatto a un

registro formale che non il primo.

La variazione diastratica è la presenza di varianti a seconda dello strato sociale di

appartenenza del parlante. Più il ceto è basso, più egli tenderà probabilmente a

utilizzare il dialetto al posto dell’italiano, il quale, se eventualmente parlato,

risulterà comunque influenzato dal vernacolo. Al contrario, se il parlante

28

appartiene a uno strato sociale alto avrà un accesso più facile all’istruzione e ciò

comporterà una maggiore competenza nell’utilizzo della lingua standard.

Esiste infine la variazione diamesica, vale a dire la presenza di varianti della lingua

in base al mezzo di produzione usato. Nella forma scritta c’è la tendenza a

utilizzare un tipo di linguaggio più formale e burocratico. Nel parlato invece,

generalmente il linguaggio è più informale e colloquiale, nonostante si usi, In

determinati contesti, anche un linguaggio formale.

Ciascuna di queste varietà è importante e contribuisce alla variazione diacronica;

essa infatti non avverrebbe se non esistessero, già in fase sincronica, ovvero in un

determinato arco temporale, diverse varianti della stessa lingua. La variabilità

viene definita mutamento nel momento in cui una varietà è accolta. Essa quindi

può affermarsi e diffondersi fino a contribuire al cambiamento dell’idioma di

partenza.

Nonostante le varianti sincroniche, tuttavia, le lingue attraversano dei periodi di

stabilità. Generalmente se un idioma gode di elevato prestigio subirà modifiche in

tempi più lunghi, mentre una lingua parlata da pochi si evolverà in tempi più

ristretti. Il prestigio di una lingua dipende da vari fattori: sarà alto se la lingua in

questione è ufficiale a livello nazionale, se è letteraria, cioè se esiste una

produzione letteraria in quella lingua, e se si insegna a scuola. Solitamente le lingue

più stabili sono quindi quelle ufficiali che si parlano a livello nazionale come

l’italiano, l’inglese, il francese e via dicendo. Anch’esse però tendono al

cambiamento, soprattutto al giorno d’oggi in cui i parlanti di ogni Stato sono

costantemente in contatto con altre lingue e culture, fattore che facilita

enormemente il mutamento linguistico.

Un altro aspetto molto utile per stabilire il livello di prestigio di una lingua è

costituito dalla forma di governo dello Stato in cui si parla l’idioma in questione. Se è

presente un centro politico unitario e coeso la lingua tenderà a essere più stabile,

mentre nel caso di frammentazione sarebbe invece favorito il mutamento linguistico.

Il latino, per esempio, non ha subito sostanziali mutamenti per secoli proprio perché

era parlato da una comunità unitaria e coesa con un forte centro politico unificatore.

Tuttavia, nel momento in cui l’Impero è crollato e questo centro si è disgregato, le

diverse varianti hanno iniziato ad affermarsi e diffondersi rapidamente, finché si è

29

giunti al mutamento del latino che si è trasformato nelle lingue romanze. Le varianti

che si sono affermate nei vari luoghi esistevano già da tempo, ma non avevano forza

sufficiente per imporsi; è stato necessario il crollo dell’Impero Romano per far sì che

le variazioni presenti nel latino si trasformassero in mutamenti.

Se non ci fossero dunque varianti in un determinato arco temporale non

avverrebbe alcun cambiamento nel tempo. La presenza di queste varietà è dovuta a

molteplici motivi.

Generalmente le lingue tendono a semplificarsi con il passare del tempo. I casi latini, per

esempio, sono stati abbandonati dalle lingue romanze e la sintassi si è semplificata.

Anche le differenze lessicali regionali italiane sono dovute a cause politiche, sociali e

culturali. È quindi lecito riproporre l’esempio precedente sulle varianti della parola

“appendiabiti”: il motivo della loro esistenza è da ricercarsi nel fatto che l’Italia è stata

per secoli una nazione estremamente frammentata con la presenza di vari centri

politici. Ciascuno di essi costituiva un polo politico e culturale quasi a sé stante, dunque

ha avuto ripercussioni sulla lingua che ha preso una direzione più o meno diversa per

ogni regione. (Luraghi, 2006/2013; Gensini, 1988/1992)

I mutamenti sono dunque la causa principale della nascita di nuove lingue, mamma

alcune possono prendere vita in un modo diverso, ovvero attraverso il contatto

linguistico. Ne sono un esempio perfetto le lingue creole e i pidgins, lingue di

contatto.

Se il mutamento diacronico porta alla nascita di una nuova lingua, potrà causare

anche la morte di quella precedente che, dopo essersi evoluta e trasformata, verrà

abbandonata.

Tali processi sono difficilmente prevedibili e solo a posteriori ci si renderà conto che si

sono accumulate nel tempo così tante differenze da rendere la lingua antica

incomprensibile, nonostante essa sia la base di quella nuova. C’è comunque un margine

di tempo in cui si può capire che la fine di una lingua è vicina: secondo l’Unesco, quando

essa non è più appresa da almeno il 30% dei parlanti come prima lingua, allora è

destinata a morire. A questo punto qualsiasi tentativo di recupero sarebbe poco

fruttuoso, perché se un idioma muore significa che non possiede prestigio e che i

parlanti non sono interessanti a mantenerlo in vita (Luraghi, 2006/2013).

30

2.2 Processo di creazione e sviluppo di una lingua pianificata

Una lingua naturale richiede secoli per formarsi e in realtà non ha mai un punto di

arrivo, se non temporaneo, in quanto continuerà a mutare nel tempo. Una lingua

pianificata, invece, nasce grazie a un atto di creazione consapevole e non deriva da

una lingua precedente; ciò non significa, però, che la nascita delle lingue pianificate

non attraversi una serie di passaggi. Il processo si divide in due fasi principali, IL

prima delle quali è la glottopoiesi: con questo termine si indica “la fase di

costruzione a tavolino del nucleo strutturale della lingua da parte del glottoteta”.

Durante questa fase egli ha il compito di decidere “la grammatica della lingua a

tutti i livelli – fonetica, morfologia, sintassi – e il dizionario di base” (Gobbo, 2009,

P. 72); alla fine di questo momento il glottoteta avrà creato una “lingua progetto”

(Blanke,1985, citato da Gobbo, 2009).

In questa prima fase il glottoteta inizia a codificare un modello semiformale della

lingua che vuole pianificare e ciò che creerà sarà la varietà standard dell’idioma.

Ciò significa che, se la si considerasse naturale, questa variante coesisterebbe

probabilmente insieme a uno o più dialetti. Compito del glottoteta è anche quello di

elaborare un lessico e trovare un modo affinché la sua creazione venga acquisita

dai futuri e ipotetici parlanti. Questi ultimi due passaggi in particolare sono molto

influenzati dalla L1 dell’inventore, cioè dalla sua lingua madre, fenomeno che

avviene inconsapevolmente e che prende il nome di “effetto Bausani” (Gobbo,

2009, P. 73).

A questo punto inizia il secondo momento della creazione delle lingue pianificate,

detto “fase della vita semiologica”, termine suggerito da Ferdinand De Saussure.

L’idioma creato è stato accettato dai parlanti, i quali iniziano a utilizzarlo nella

comunicazione; ciò significa che il glottoteta creatore ha perso ogni potere di

controllo nei confronti della lingua, che “avrà il carattere di trasmettersi in

condizioni che non hanno alcun rapporto con quelle che l’hanno costituito […]. […]

la lingua è entrata nella sua vita semiologica, e non si può più tornare indietro: essa

si trasmetterà per via di leggi che non hanno niente a che fare con le leggi di

creazione” (De Saussure, 1970, P. 42, citato da Gobbo, 2009, P. 74).

Tuttavia, è facile intuire che non tutte le lingue pianificate raggiungono questa fase

31

di vita semiologica; per fare un esempio, è sufficiente pensare a una qualunque

delle lingue create per scopi letterari, come l’alto valyriano. Esso possiede sì

morfologia, sintassi e fonetica, ma non viene parlato se non nel mondo fantastico

per il quale è stato concepito.

Questo discorso però non riguarda esclusivamente questo tipo di lingue: anche

alcune LAI non hanno raggiunto la condizione di vita semiologica, nonostante siano

state concepite per uno scopo ben preciso e reale; un esempio, già menzionato in

precedenza, è il Latino sine Flexione di Giuseppe Peano.

Per tutte le lingue che invece raggiungono la condizione di vita semiologica, il loro

processo di sviluppo non è ancora concluso. È infatti a questo punto che ha inizio

l’arduo compito di diffondere la lingua affinché si crei una comunità di parlanti in

grado di trasmetterla alle generazioni future. È dunque di vitale importanza far sì

che essa raggiunga il maggior numero di parlanti possibile ed esistono vari modi

per cercare di realizzare quest’obiettivo; si possono organizzare congressi, fondare

società che abbiano come scopo proprio quello di diffondere la lingua, redigere

manuali di grammatica nel nuovo idioma per dare la possibilità ai nuovi parlanti di

apprenderla e tradurre testi letterari conosciuti.

Oggigiorno l’avvento di Internet fornisce ai glottoteti desiderosi di diffondere la

loro lingua una grande possibilità di successo, attraverso blog, pagine, siti o video.

Internet si è rivelato utile non solo per la diffusione, ma anche per la creazione di

nuovi idiomi. Infatti, tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, il numero di

persone che proponevano una lingua pianificata, creata come progetto di LAI, per

scopi letterari o ludici, è aumentato sempre di più.

Il 29 luglio del 1991 ebbe luogo il primo raduno di creatori di lingue e venne creato

il primo listserv apposta per loro, che fu chiamato Conlang Listserv. Conlang è un

termine coniato dalla prima radice di constructed (pianificato) e language (lingua)

e ben presto il termine conlang divenne il più utilizzato per riferirsi alle lingue

pianificate (Peterson, 2015, pp. 11-12). Grazie a questa piattaforma e ai vari metodi

per entrare in contatto tra loro, i conlanger, coloro che creano lingue, iniziarono

come mai prima di quel momento a scambiarsi idee, opinioni e consigli per creare e

diffondere i loro progetti.

32

Il processo di sviluppo delle lingue pianificate non è uguale per tutti gli idiomi e

differisce a seconda del motivo per cui essi vengono creati.

Se il glottoteta ha intenzione di fornire ai parlanti che non condividono lo stesso

codice una lingua che permetta loro di comunicare in modo semplice, cioè una LAI,

allora probabilmente il suo progetto sarà di una lingua a posteriori, ovvero basata

su idiomi già esistenti. Il glottoteta dovrà ricordarsi che la sua lingua dovrà essere

piuttosto semplice in modo da poter essere appresa in poco tempo e senza troppe

difficoltà da parlanti provenienti da diverse aree linguistiche. Un glottoteta che

invece avesse il compito, o il desiderio, di creare una lingua pianificata per la

letteratura o lo spettacolo, incontrerebbe ostacoli di tipo diverso. La sua lingua

potrebbe essere creata a priori, cioè senza basarsi su alcuna lingua già esistente,

dato che dovrebbe essere usata da una popolazione immaginaria. Una delle

maggiori sfide però, sarebbe quella di cercare di rendere la lingua il più verosimile

possibile e di legarla alla cultura del popolo fittizio; la lingua infatti è sempre

strettamente connessa all’ambiente culturale e sociale. David Peterson descrive

perfettamente questa situazione quando commenta la creazione della lingua

dothraki per lo show televisivo Il Trono di Spade. Essendo i Dothraki una

popolazione di nomadi piuttosto barbara, gli sceneggiatori richiedevano una lingua

che suonasse “dura”, proprio perché essa doveva in qualche modo rispecchiare la

comunità dei suoi parlanti (Peterson, 2015, pp. 25-26).

Saranno ora analizzate le modalità in cui sono state create due lingue tra loro molto

diverse, proprio per sottolineare le diverse metodologie utilizzate: il celebre

esperanto, una LAI creata per il mondo reale, e l’alto valyriano, creato invece per la

letteratura e il cinema.

2.2.1 Una lingua pianificata per il mondo reale (l’esperanto)

L’esperanto è una lingua pianificata nata come progetto di LAI nella seconda metà

del XIX secolo. Il suo ideatore, il dottor Louis-Lazare Zamenhof, pubblicò

autonomamente, non avendo trovato un editore disponibile a farlo, il suo primo

pamphlet adottando lo pseudonimo di Doktoro Esperanto, da cui deriva il nome

dell’idioma (Couturat & Leau, 2006).

Il testo fu pubblicato nel 1887, ma l’esperanto esisteva già da tempo. Il dottor

33

Zamenhof, infatti, già durante gli anni del ginnasio aveva iniziato a dedicarsi alla

pianificazione di quella che sarebbe diventata in futuro la più conosciuta tra le LAI.

Continuò a sviluppare il suo progetto nel corso dei sei anni di università: non solo

creò lessico e grammatica, ma si dedicò alla traduzione e alla composizione di testi

mentre si esercitava anche a pensare in lingua, arricchendola e perfezionandola.

Come narrato da Zamenhof stesso in una lettera spedita a Nikolai Borovko, la culla

dell’esperanto è la città di Białystok, la stessa in cui egli trascorse l’infanzia. Essa

era abitata da russi, polacchi, tedeschi ed ebrei e il giovane Zamenhof riteneva di

poter risolvere le tensioni presenti grazie alla creazione di una lingua neutra che

facilitasse la comunicazione. Avendo quindi ben presente lo scopo di una lingua

ausiliaria, iniziò a elaborare una grammatica semplificata, dopo aver abbandonato

l’idea iniziale di restaurare una lingua morta risalente all’età classica. Per quanto

riguarda il vocabolario scelse di attingere a quello romano-germanico e slavo,

inserendo molte parole internazionali; questo rende dunque l’esperanto una lingua

a posteriori.

L’alfabeto si compone di 27 lettere, di cui 5 vocali e 22 consonanti, alle quali si

aggiunge la semiconsonante “ŭ”, corrispondente alla u breve. Gli unici dittonghi

previsti sono aŭ e eŭ, mentre tutte le altre vocali vengono pronunciate

separatamente. Ogni fonema può essere pronunciato in un solo modo. L’accento si

trova sempre sulla penultima sillaba. È presente un unico articolo determinativo,

“la”, invariabile sia per genere sia per numero, mentre non sono previsti l’articolo

partitivo né quello indefinito.

Anche il sistema numerico è molto semplice: i numeri cardinali sono invariabili e

conoscendo i termini da “uno” a “dieci”, più “cento” e “mille”, sarà possibile formare

tutti gli altri numeri. È infatti sufficiente elencare ciascuna unità che compone il

numero, in ordine dalla maggiore alla minore; per esempio, 2457 si scrive dumil

(duemila) kvarcent (quattrocento) kvindek (cinquanta) sep (sette). Per formare i

numeri ordinali basta aggiungere la desinenza “a” ai numeri cardinali.

La vocale finale permette di distinguere il ruolo di ciascuna parola all’interno del

discorso:

 La “-i” caratterizza i verbi all’infinito; essi sono invariabili per numero e persona,

dunque la coniugazione risulta uniforme. Per poter distinguere i tempi verbali

34

gli uni dagli altri è sufficiente osservare la desinenza: se il verbo termina con “-

as” sarà al presente, con “-is” al passato, con “-os” al futuro, con “-us” al

condizionale e con “-u” all’imperativo o al congiuntivo.

 La “-o” caratterizza i sostantivi al nominativo singolare; per formare il plurale è

sufficiente aggiungere una “-j”, mentre per passare al caso accusativo (l’unico

esistente oltre al nominativo), singolare o plurale, è necessario aggiungere la “-

n” al nominativo. Non esistono altri casi, che sono sostituito da preposizioni.

 La “-a” caratterizza gli aggettivi al nominativo singolare; essi devono sempre

essere accordati con il sostantivo al quale si riferiscono in numero e in caso,

mentre il genere è invariabile. La formazione del plurale e dell’accusativo

avviene come per i sostantivi.

 La “-e” caratterizza gli avverbi derivati, mentre quelli primitivi o le preposizioni

terminano spesso con il dittongo “-aŭ”.

La costruzione della frase non segue regole troppo severe pur non essendo

eccessivamente libera, in modo da evitare sia equivoci che scaturiscono dall’ordine

delle parole, sia l’assenza di eleganza e logica. Generalmente si raggruppano le

parole della stessa proposizione separandole mediante la virgola da quelle di altre

proposizioni; in questo modo esse non s’intrecciano tra loro, dunque non nascono

equivoci.

Di solito l’ordine della frase è soggetto – verbo – complemento oggetto –

complementi indiretti, ma data la quasi assenza di regole è possibile cambiare la

disposizione.

Per la scelta del vocabolario, Zamenhof ha escogitato un modo per renderlo

relativamente semplice e il più internazionale possibile. È riuscito a ridurlo a un

nucleo ristretto di radicali ai quali è sufficiente aggiungere determinati suffissi

invariabili per formare le parole. Questi radicali sono stati scelti secondo il

principio dell’internazionalità, cioè selezionando solo quelli che comparivano più

volte in diverse lingue europee; in questo modo Zamenhof è riuscito a favorire il

maggior numero di parlanti possibile.

I radicali possono essere suddivisi in tre categorie. La prima comprende quelli

internazionali per le lingue europee, si riferiscono per lo più all’ambito scientifico e

sono di origine greca o latina. Nella seconda categoria si trovano i radicali solo

35

parzialmente internazionali; ma comunque condivisi dalla maggior parte delle

lingue europee. Nella terza e ultima categoria si trovano infine i radicali non

internazionali, che Zamenhof ha scelto tra quelli usati dalle persone colte. Ha

inserito anche in questa categoria vari radicali di origine slava o germanica, per

garantire maggiormente la parità tra le lingue. I radicali di origine latina, infatti,

hanno più degli altri carattere di internazionalità e sono quindi molto presenti

nelle prime due categorie; in questo modo Zamenhof ha trattato in modo

imparziale le lingue europee.

Zamenhof era consapevole del fatto che un uomo da solo non può creare una lingua

perfetta e che ogni idioma, anche pianificato, se è utilizzato da una comunità di

parlanti è destinato a cambiare nel tempo. Lasciò quindi che il pubblico utilizzasse

e sviluppasse la lingua, senza pretendere di averne il controllo. Seppur con qualche

difficoltà iniziale, l’esperanto cominciò a diffondersi lentamente a partire dalla

Russia. Dimostra l’interesse verso l’esperanto la fondazione a San Pietroburgo, nel

1892, della società Espero.

Nacque in seguito il primo giornale esperantista, La esperantisto, che assunse un

ruolo fondamentale nella diffusione della lingua.

Per incoraggiarne l’utilizzo vennero pubblicati manuali, traduzioni di classici come

l’Amleto, l’Iliade o le Nozze di Figaro e vari adepti s’impegnarono affinché

l’esperanto si diffondesse il più possibile. Colui che contribuì maggiormente fu

Louis de Beaufront, un filologo molto noto. Egli stava elaborando, grazie a un

lavoro che stava durando da più di dieci anni, un’altra lingua pianificata:

l’adjuvanto, che scoprì essere molto simile all’esperanto. De Beaufront si rese conto

che la sua lingua era meno precisa, per alcuni aspetti, rispetto a quella di

Zamenhof, così la abbandonò per dedicarsi all’esperanto. Grazie a lui l’idioma si

diffuse in Francia, con la fondazione del mensile L’Esperantiste e della Societé Pour

la Propagation de l’Esperanto (Couturat & Leau, 2006).

Dopo più di un secolo, l’esperanto continua ad avere successo e il suo uso non

accenna ad arrestarsi: esistono manuali in varie lingue, riviste, società di

propaganda e siti web, come risulta dal sito della Federazione Esperantista Italiana

(http://www.esperanto.it/).

36

Nonostante l’esperanto abbia riscosso un notevole successo, ha anche ricevuto un

certo numero di critiche. La prima di esse ha come destinatario l’alfabeto. Si

rimprovera all’esperanto di avere troppe lettere accentate, che creano confusione nel

lettore, costituiscono dei suoni difficili da imparare e comportano delle difficoltà

nella scrittura. Per esempio, il fonema corrispondente alla lettera ĥ è arduo da

pronunciare per i francesi. I problemi di questo genere vanificano tutti gli sforzi di

Zamenhof per rendere la lingua il più internazionale possibile. Altre critiche sono

state mosse contro aspetti che in realtà sono più positivi che negativi: alcuni non

hanno apprezzato, per esempio, la distinzione delle parti del discorso che avviene

grazie alla desinenza in finale di parola. Questa è, invece, una caratteristica che rende

la lingua comoda e semplice da imparare perché permette innanzitutto di

riconoscere a colpo d’occhio il ruolo di ciascuna parola nella proposizione e in

secondo luogo di formare le parole in modo meccanico (Couturat & Leau, 2006).

2.2.2. Una lingua pianificata per la finzione letteraria (alto valyriano)

L’alto valyriano è una lingua pianificata da David Joshua Peterson per la serie

televisiva Il Trono di Spade, basata sui libri dello scrittore americano George

Raymond Richard Martin.

David Peterson ha recentemente dato un importante contributo al mondo della

pianificazione linguistica, non solo per aver creato varie lingue, ma anche per

essere uno dei fondatori della Language Creation Society. Si tratta di

un’organizzazione creata per promuovere le lingue pianificate e farle conoscere al

pubblico. Tale società riveste inoltre un ruolo di intermediazione tra coloro che

vogliono avvalersi di lingue pianificate nei loro lavori (che possono essere la

scrittura di libri o di sceneggiature cinematografiche) e chi si occupa di crearle.

Tra le varie lingue create da Peterson, oltre all’alto valyriano e al dothraki, le più

importanti e famose sono l’indojisnen, l’irathient, il castithan e il kinuk’aaz per la

serie televisiva Defiance e lo shiväisith per Thor: The Dark World. A differenza del

dottor Zamenhof, Peterson non ha mai creato un progetto di LAI e i suoi idiomi

sono tutti destinati al mondo fantasy o fantascientifico.

La prima comparsa dell’alto valyriano è avvenuta nel corso della terza stagione

della serie televisiva Il Trono di Spade, nel 2013, mentre il dothraki aveva già avuto

37

il suo debutto nella prima stagione. I produttori David Benioff e Daniel Brett Weiss

affidarono a Peterson il compito di pianificare l’alto valyriano nel 2012, nonostante

lui avesse già iniziato a svilupparne un progetto nel 2009.

Non trattandosi di una LAI, come lo è l’esperanto, Peterson non era legato a

particolari vincoli per quanto riguarda la semplicità e la neutralità; la sua lingua,

dopotutto, non ha né ha avuto, sin dall’inizio, lo scopo di agevolare la

comunicazione tra parlanti di diversa nazionalità. Tuttavia, quello di Peterson non

è stato un lavoro totalmente libero, poiché lo scrittore George R. R. Martin aveva già

creato delle espressioni in alto valyriano che era essenziale rimanessero tali. Per

questo motivo Peterson scelse di iniziare a partire dalla grammatica, nonostante

fosse sua abitudine, come da lui stesso dichiarato in The Art of Language Invention,

cominciare dalla fonologia di una lingua (Peterson, 2015).

Perché potesse lavorare al progetto di elaborazione del dothraki, George Martin gli

aveva fornito un elenco di parole da lui create, per un totale di 56, compresi 24 nomi

propri. Per l’alto valyriano, al contrario, il numero era molto ristretto: 6 parole più un

vasto numero di nomi propri. I due elementi che più hanno aiutato Peterson sono

state due frasi: Valar morghulis e Valar dohaeris, rispettivamente “tutti gli uomini

devono morire” e “tutti gli uomini devono servire”. Queste espressioni hanno

costituito il punto di partenza dell’alto valyriano, la cui pianificazione è iniziata con la

stesura della struttura verbale e del sistema numerico.

Osservando queste due frasi e le rispettive traduzioni, Peterson decise innanzitutto

che la parola valar avrebbe avuto il significato di “tutti gli uomini”, mentre morghulis

e dohaeris avrebbero dovuto corrispondere a “devono morire” e “devono servire”. Sia

l’inglese (all men must die/serve) che l’italiano (tutti gli uomini devono

morire/servire) si servono di più parole per esprimere lo stesso concetto. Pensando

dunque a una traduzione letterale, in alto valyriano mancherebbero degli elementi

linguistici a cui far corrispondere il pronome indefinito “tutti” e il verbo “devono”.

Per essere precisi, in italiano è presente anche l’articolo “gli”, ma Peterson,

influenzato dalla sua lingua madre, non si è posto il problema della sua assenza.

Come spiega egli stesso, decise di rielaborare alcune caratteristiche del latino per

giungere alla soluzione (Peterson, 2015, P. 201). Il motivo per cui scelse proprio il

latino e non un’altra lingua risiede nelle affinità che trovava tra la storia dell’Impero

38

romano e quella della Libera Fortezza di Valyria, nome dell’antico impero valyriano.

La Libera Fortezza, posta nel continente orientale chiamato Essos, era un grande

impero che nei secoli aveva conquistato larga parte del continente, arrivando persino

ad avvicinarsi a quello occidentale. Durante la sua espansione, la Libera Fortezza

riuscì a sottomettere anche l’antico impero Ghiscariano, il quale abbandonò la sua

lingua madre per adottare l’alto valyriano dei conquistatori. Questo portò dunque

alla nascita di diverse varianti di valyriano, che, nel corso di secoli, mutò fino a

diventare quello che è conosciuto come il valyriano imbastardito. Anche riguardo a

questo idioma esistono delle varianti diatopiche, relative al luogo geografico in cui

esso è parlato. Il glorioso impero della Libera Fortezza venne distrutto da un terribile

cataclisma che si abbatté su Valyria, la capitale (Peterson, 2015; García, Martino &

Antonsson, 2014). Questa storia condivide molti aspetti con quella realmente

accaduta dell’Impero Romano, il quale si espanse in quasi tutta l’Europa

conquistando territori e diffondendo l’uso del latino, diventato fattore di coesione

linguistica. Con la caduta dell’Impero, venne meno il centro politico unificatore e la

norma linguistica disgregata iniziò il lungo processo di trasformazione che avrebbe

condotto alla nascita delle lingue romanze. Peterson, resosi conto della somiglianza

con la storia dell’impero di Valyria, decise dunque che la sua lingua pianificata

avrebbe dovuto in qualche modo ricordare il latino.

Iniziando da valar, Peterson sviluppò la categoria grammaticale del numero in

valyriano, creando singolare, plurale, collettivo e paucale, come si può riscontrare

nella tabella che segue.

Numero Accordanza verbo

Logica

Singolare

Uno

Singolare

Un attore

Plurale

Molti

Plurale

Attori multipli non trattati come unità

coesa

Collettivo

Tutti

Singolare

Attori multipli trattati come unità

Paucale

Pochi

Plurale

Numero ristretto di attori non trattati

come unità coesa

Tabella 1: Il numero in alto valyriano – Tabella tradotta da The Art of Language Invention (Peterson,

2015, P. 201)

39

L’individuazione del collettivo è stata necessaria per fare in modo che valar

corrispondesse a “tutti gli uomini”; infatti, così come in italiano, i nomi collettivi

indicano più soggetti che vengono però considerati come un’unità. Il verbo riferito

al collettivo sarà singolare, in quanto il soggetto viene considerato come uno

singolo; per esempio, un nome collettivo in italiano è “stormo”. Con questa parola si

indica ogni uccello del gruppo, ma si dice “lo stormo vola” e non “volano”.

Il paucale, o plurale paucitatis in latino (cioè “plurale di pochi”), è stato aggiunto da

Peterson semplicemente per dare più armonia alla lingua e far sì che fosse più

equilibrata.

La creazione del sistema verbale si rivelò più complicata; Peterson realizzò un

abbozzo di proto-valyriano per rendere il suo compito più semplice. Poté quindi

utilizzarlo come base applicando le evoluzioni che plausibilmente avrebbe subito

una lingua naturale. Da questo idioma primordiale ricavò una radice perfetta e una

imperfetta e sviluppò sei tempi: presente, perfetto, imperfetto, piuccheperfetto,

futuro e aoristo. Quest’ultimo tempo verbale è molto particolare ed è simile a

quello utilizzato nelle frasi di partenza valar morghulis e valar dohaeris.

Per spiegarlo è opportuno presentare un esempio:

Jaohossa rhovis

I cani stanno abbaiando (presente)

Jaohossa rhovisi

I cani abbaiano (aoristo)

La prima frase indica un certo numero di cani che nel preciso momento in cui si

parla stanno abbaiando. La seconda è invece un’affermazione generica e sempre

valida, dunque non è essenziale che mentre si produce la frase ci siano dei cani

intenti ad abbaiare. Il tempo verbale è un aoristo, che viene sostituito, in quanto

mancante, da un presente semplice sia in italiano sia in inglese. Sostituendo il

plurale jaohossa con un collettivo (jaohor), in modo da indicare tutti i componenti

di un gruppo come unità, si pone l’enfasi su quest’ultima; la combinazione di

collettivo e aoristo porta, dunque, al senso espresso da “tutti gli uomini devono

morire/servire”. La traduzione di valar morghulis/dohaeris, tuttavia, è devono

morire/servire e non solo muoiono/servono. Questo poiché il verbo assume un

senso più gnomico, ossia sentenzioso, e la traduzione più appropriata per

esprimere questa lieve variazione di senso è l’aggiunta del verbo dovere. Tuttavia,

40

questo ragionamento è applicabile esclusivamente alla frase valar morghulis, In

quanto la morte è un destino comune a tutta l’umanità; al contrario, non è ovvio

che tutti gli uomini debbano servire. La seconda frase, dunque, assume questo

significato solo in virtù del fatto che essa viene sempre associata a valar morghulis;

le due sentenze sono infatti imprescindibili l’una dall’altra e il loro abbinamento

produce il significato di “devono morire/servire” (Peterson, 2015).

Oltre alla creazione della grammatica, vi sono altri elementi che hanno un ruolo

importante nel processo di formazione di una lingua. Come spiega David Peterson

in un’intervista, i due fattori che influenzano maggiormente una lingua sono la

topografia dell’area in cui l’idioma è parlato e il livello di tecnologia posseduto dai

parlanti (Peterson, 2014). Nel capitolo uno del presente lavoro è riportato un

esempio che dimostra quanto una lingua venga influenzata dalla sua appartenenza

a un’area geografica. Si tratta del caso riguardante le differenze lessicali tra il

piemontese e il siciliano. Il livello tecnologico, invece, è comune a tutte le

popolazioni del mondo fantastico creato da Martin, popolazioni che vivono in una

sorta di Medioevo. Costituiscono l’unica eccezione i Dothraki, i quali si trovano in

una condizione storica ancora più arcaica.

Nella creazione dell’alto valyriano, Peterson aveva dunque il compito di tener conto

dei due fattori sopra citati; tuttavia, come dichiara egli stesso, il compito non era

semplice in quanto il materiale a sua disposizione era scarso. Tale mancanza era

dovuta a due motivi: innanzitutto, la storia narrata nei libri di Martin si svolge circa

tre secoli dopo la fioritura dell’Impero della Libera Fortezza, dunque l’autore non si

è preoccupato immediatamente di creare nei particolari uno scenario di

quell’epoca. In secondo luogo, dato il divario storico, tutti i parlanti nativi dell’alto

valyriano sono morti, portando con sé nell’oblio la loro cultura. L’unica discendente

diretta dell’antico impero è Daenerys Targaryen, la quale, nonostante parli ancora

il puro alto valyriano, è distante dalla sua cultura originaria. Per creare una lingua

che risultasse convincente, Peterson ha dunque cercato di tenersi a debita distanza

dalla formazione di parole che descrivessero la vita quotidiana, in quanto non era a

conoscenza di come essa si svolgesse.

La situazione è invece diversa per quanto riguarda le lingue discendenti dall’alto

valyriano, che potrebbero essere considerate simili alle lingue romanze, discendenti

41

dirette del latino. Il basso valyriano, o valyriano imbastardito, viene parlato nelle

città libere del continente orientale e nelle tre città della cosiddetta Baia degli

Schiavisti: Meereen, Astapor e Yunkai, nelle quali si svolgono varie scene della serie

televisiva. Il compito di Peterson è dunque stato quello di creare anche una versione

bassa del classico valyriano, che potesse essere adatta ai parlanti di queste zone. Ha

avuto quindi più materiale a sua disposizione, per poter sviluppare l’astaporiano e il

meerense. Come da lui stesso dichiarato, il basso valyriano parlato dagli schiavisti

ricava buona parte del suo vocabolario dall’alto valyriano, quindi è stato sufficiente

creare una plausibile evoluzione dei termini partendo dalla lingua antica. La maggior

parte delle parole riguardanti il commercio degli schiavi, invece, è stata ripresa dal

ghiscari, una lingua antica quanto l’alto valyriano che veniva parlata nella zona

dell’impero ghiscariano (Peterson, 2014; García et al. 2014).

2.2.3 Confronto tra i due processi

I processi di pianificazione linguistica sviluppati dal dottor Zamenhof per

l’esperanto e da David Peterson per l’alto valyriano sono profondamente differenti.

Questa disuguaglianza riguarda diversi ambiti ed è dovuta a diversi fattori.

Innanzitutto le due lingue sono state sviluppate per motivi diversi e dunque è

logico che il risultato ne abbia risentito. Siccome l’esperanto è stato

originariamente pensato come un progetto di lingua ausiliaria internazionale,

doveva rispettare determinati canoni. Era essenziale che la lingua risultasse

relativamente semplice, immediata e il più internazionale possibile. Per questo

motivo Zamenhof creò i radicali per il suo vocabolario secondo il principio

d’internazionalità. Peterson, al contrario, non aveva un simile vincolo a cui

sottostare, in quanto la sua lingua era destinata a una popolazione immaginaria.

Nelle varie fasi di creazione dell’alto valyriano, infatti, non si nota la volontà del

glottoteta di valorizzare una serie di altre lingue che concorressero all’elaborazione

dell’idioma pianificato.

Il fatto di aver utilizzato un determinato numero di lingue come base, fa

dell’esperanto una lingua a posteriori, senza alcun elemento creato a priori. L’alto

valyriano, così come altre lingue pianificate da Peterson, è invece una lingua mista,

in parte a posteriori in parte a priori.

42

Per esempio la parola che indica “gatto” in alto valyriano è kēli: l’origine di questo

termine non è in alcun modo legata a nessuna lingua, in quanto Keli è

semplicemente il nome del gatto di David Peterson (Peterson, 2015). In una LAI

non è possibile inserire elementi di questo tipo, o comunque è fortemente

sconsigliato, in quanto è necessario cercare di agevolare il più possibile i parlanti

creando vocaboli non totalmente nuovi, ma che assomiglino a quelli di una lingua

esistente.

Eccezion fatta per alcuni elementi, quali kēli, anche l’alto valyriano si basa su una

lingua naturale, cioè il latino, dunque può essere considerata una lingua anche a

posteriori.

L’operazione è complicata poiché la lingua utilizzata come base è antica ed è caduta

in disuso anche a causa della sua complessità. L’esperanto, al contrario, ha come

base lingue vive e più semplici.

Un altro elemento di differenza è costituito dal fatto che Zamenhof non doveva

badare alla creazione di un contesto culturale nel quale fare sviluppare la sua LAI,

in quanto esso già esisteva. È invece ciò di cui ha dovuto in parte occuparsi

Peterson. La cultura dei parlanti gioca un ruolo fondamentale nel risultato finale

della loro lingua (Peterson, 2014). I fenomeni culturali, sociali, politici e storici si

intrecciano strettamente ai fenomeni linguistici. Per David Peterson e tutti quei

glottoteti che si dedicano alla pianificazione di idiomi per mondi fantastici, è

dunque sempre difficile dover pensare a un contesto culturale all’interno del quale

inserire la propria creazione.

Il contesto culturale e storico di riferimento delle due lingue costituisce un’altra

differenza importante. L’esperanto possiede molti più vocaboli rispetto all’alto

valyriano e questo per due motivi. Innanzitutto, la lingua pianificata da Peterson

viene parlata, essenzialmente, in alcune scene della serie televisiva e non nella vita

quotidiana. Il suo lessico è ridotto rispetto a quello dell’esperanto che possiede un

numero maggiore di vocaboli per permettere ai parlanti di avere tutti gli elementi

di cui hanno bisogno per esprimersi. Inoltre, essendo l’alto valyriano utilizzato in

un’epoca storica corrispondente al Medioevo, mancherà di termini moderni,

certamente presenti invece nell’esperanto.

43

In conclusione, si può affermare che il processo di pianificazione di una lingua non

è sempre uguale a se stesso, ma può variare di volta in volta e dipende dalla

tipologia di idioma che si ha intenzione di creare. Qualunque tipo di pianificazione

linguistica presenta varie difficoltà in diversi ambiti, dunque non è possibile

individuarne una più semplice delle altre. Un glottoteta che vuole creare un idioma

per un mondo fantastico risentirà della mancanza di un contesto storico-culturale,

mentre se dovesse creare una LAI sarebbe vincolato a una serie di regole piuttosto

ferree.

Il solo aspetto che accomuna, in un certo senso, tutti i tipi di pianificazione è la

necessità di conoscere alcune nozioni di base di linguistica e glottologia; tra di esse,

per esempio, è importante sapere come e perché avvengono i mutamenti nelle

lingue, i meccanismi che regolano la morfologia, la sintassi e la fonologia.

Nella pratica, tutti possono pianificare un idioma, anche senza conoscere nei

dettagli tutte le nozioni di cui sopra; tuttavia, più conoscenze si posseggono, più la

lingua risulterà verosimile.

44

CAPITOLO 3

L’alto valyriano e il latino

3.1 Evoluzione delle due lingue

Nel corso del primo capitolo, è stata fornita una definizione di “lingua pianificata”; io

vari tipi di lingue pianificate sono poi stati classificati in base allo scopo della loro

creazione.

Nel secondo capitolo, sono state presentate le analogie e le differenze tra il

processo di sviluppo di una lingua naturale e quello di una lingua pianificata. In

particolare, sono stati analizzati i procedimenti che si devono rispettare per creare

una LAI e un idioma per la finzione letteraria.

In quest’ultima parte della trattazione, sarà proposto un altro paragone tra una

lingua naturale e una pianificata. Non sarà più preso in considerazione il

procedimento di creazione perché lo scopo sarà quello di capire se esse possano

essere poste sullo stesso livello. La lingua naturale che sarà presa in esame è il

latino, che oggi costituisce la base da cui hanno avuto origine le lingue romanze, o

neolatine, tra cui l’italiano, il francese, lo spagnolo o il rumeno. Il latino è una lingua

molto antica, un idioma naturale, e deriva da un’altra lingua antecedente

denominata indoeuropeo. Da quest’idioma primordiale, si ritiene che derivino le

lingue indoeuropee che a loro volta si suddividono in famiglie. Esse sono il latino e

le lingue romanze, il greco, le lingue germaniche, le lingue celtiche, le lingue

anatoliche, l’albanese, il tocario, le lingue slave, l’indoiranico, le lingue baltiche e

l’armeno. Tuttavia, l’indoeuropeo è una protolingua, ossia un idioma non attestato,

ricostruito dagli studiosi; ciò significa che nella realtà probabilmente non era

esattamente così com’è risultato dalle ricerche, ma presentava sicuramente delle

caratteristiche linguistiche diverse, che però non ci è dato conoscere. Per arrivare

al protoindoeuropeo gli studiosi si sono serviti del metodo storico-comparativo,

45

nato nell’Ottocento in Europa; esso consiste nell’analizzare e confrontare tra di loro

le lingue standardizzate, ricercando le analogie lessicali, morfologiche o fonetiche

riconducibili a un’unica matrice. Tuttavia, procedendo in questo modo, gli studiosi

non hanno considerato le varianti diacroniche, tipiche di ogni lingua, rendendo il

risultato omogeneo e non differenziato. Il protoindoeuropeo, infatti, è piuttosto

uniforme e non presenta al suo interno le solite varianti che una lingua dovrebbe

avere. Infatti i linguisti, che hanno ricostruito teoricamente la protolingua, non

hanno potuto confrontarsi con una lingua realmente utilizzata dai parlanti e con le

variazioni che essi sempre introducono (Luraghi, 2006/2013).

Oltre all’indoeuropeo, sono state ricostruite altre protolingue e secondo alcuni

studiosi esse potrebbero discendere da un’unica lingua originaria. Tuttavia, E

tratta di una questione sulla quale c’è molto dibattito, in quanto non sono ancora

stati trovati elementi sufficienti a creare consenso internazionale. Esistono due

teorie che spiegano in che modo questa ipotizzata lingua originaria si sia diffusa e

in seguito evoluta; la prima è la teoria della sostituzione. Essa ipotizza che delle

comunità di ominidi evoluti, in possesso di un sistema di comunicazione

linguistico, abbiano causato il confinamento di altre comunità meno evolute e con

sistemi di comunicazione più arretrati sostituendosi a esse. La seconda teoria è

invece quella del candelabro, secondo la quale possono essere avvenute delle

ondate colonizzatrici da parte di ominidi evoluti. Essi si sarebbero integrati con

comunità disperse in seguito a precedenti migrazioni; in questo modo degli

elementi di comunicazione più progrediti si sarebbero innestati su matrici

prelinguistiche preesistenti. (Romano & Miletto, 2010).

La lingua pianificata che verrà analizzata sarà invece l’alto valyriano di David

Peterson. A differenza della maggior parte degli idiomi pianificati per la finzione

letteraria, l’alto valyriano può essere considerato in un certo senso simile alle

lingue naturali; esso, infatti, è stato creato immaginando un suo processo evolutivo

con conseguenti mutamenti linguistici. Il glottoteta ha avuto il compito di creare

non solo la lingua standard, ma anche una sua variante più bassa e più recente

rispetto alla prima, parlata nel continente orientale nel periodo storico in cui si

svolgono le vicende della serie televisiva (Peterson, 2014). Tuttavia, Peterson non

si è limitato ad applicare delle evoluzioni plausibili alla lingua antica per arrivare a

46

quella più recente; in The art of Language Invention egli scrive di un alto valyriano

primordiale, del quale sembra abbia elaborato alcune parti per facilitare la

creazione della varietà standard. In particolare, quando spiega il processo con il

quale ha creato il sistema verbale, afferma di aver immaginato dei mutamenti

fonetici in alcuni verbi, per creare in seguito quelli definitivi (Peterson, 2015).

Si tratta di un sistema utilizzato anche da altri glottoteti, tra cui Tolkien, che

consiste nel creare una sorta di protolingua in modo da semplificare la formazione

dell’idioma che si ha l’intenzione di pianificare. In questo modo lo si rende anche

più complesso e verosimile, in quanto è possibile creare una famiglia di lingue

collegate tra di loro. Grazie alla protolingua, la pianificazione linguistica risulta più

semplice non solo perché è presente un sistema di radici da usare per creare nuovi

termini, ma anche perché è possibile formulare nuove parole basate sui regolari

mutamenti fonetici.

Potrebbe sembrare un processo che vada a ritroso all’infinito, considerando che

ogni lingua deriva da un’altra, ma una protolingua creata per un idioma

immaginario ha caratteristiche simili a una dalla quale derivano le lingue terrestri.

Esse sono ricostruzioni meramente ipotetiche e, in quanto tali, sono vaghe e

costituiscono solo lo scheletro della lingua vera e propria. Una proposta

interessante è offerta da Jeffrey Henning, il quale suggerisce di utilizzare come

protolingua una lingua già esistente, come ha fatto lui creando una lingua per una

storia di fantascienza (Henning, 1995).

3.1.1 Dal latino alle lingue romanze

In Italia antica, intorno al 500 a. C., erano presenti molti popoli di origini, usi e

costumi, lingue e gradi di civiltà diversi gli uni dagli altri. Essi possono essere

suddivisi in due grandi gruppi: i popoli mediterranei, stanziali e presenti sul

territorio della penisola da secoli e secoli, e i popoli indoeuropei, arrivati intorno al

1400 a. C., provenienti dall’Europa centrale e orientale. Appartenevano al gruppo

mediterraneo i Reti, i Liguri, gli Etruschi, i Piceni, i Sardi e i Sicani. Si presume che

queste popolazioni parlassero delle lingue molto diverse le une dalle altre.

Appartenevano invece al gruppo indoeuropeo in Italia i cosiddetti Italici, cioè i

Latini, gli Equi, i Volsci, i Sabini, gli Umbri, i Campani, i Sanniti, i Lucani, i Bruzi, gli

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Japigi i Messapi, i Veneti e i Greci, detti anche Italioti. I popoli indoeuropei, a cui

appartengono anche gli Ittiti, gli Armeni, gli Iranici e gli Indiani, parlavano lingue

con caratteristiche simili. In Italia meridionale, fatta eccezione per la Sicilia, E

parlava l’osco, imparentato con l’umbro, diffuso invece nel centro Italia. Altre

lingue parlate nella penisola erano il siculo e il sardo, il messapico, l’etrusco, il

celtico, il veneto, il retico, il ligure e il greco (Gensini, 1988/1992).

Con l’espansione romana, in Italia avviene un’unificazione giuridica e politica e i

Romani attuano una politica accentratrice, per cui Roma diventa il centro

nevralgico di un impero forte e coeso dal punto di vista politico, militare e

linguistico. Nonostante il carattere accentratore di questo popolo, il latino non

viene imposto alle popolazioni conquistate, perché i Romani favoriscono

l’autonomia linguistica dei popoli sottomessi per consolidarne la fiducia.

“Sappiamo con certezza che i Romani non imposero mai con la forza o per obbligo

di legge l’uso del latino” (De Mauro, citato da Gensini, 1988/1992, P. 40). Tuttavia,

esso acquista un elevato prestigio in quanto lingua della forza egemone. Parlare

latino è considerato un privilegio, un segno di innalzamento sociale, di

appartenenza allo strato sociale elevato. Questa lingua, dunque, inizia a diffondersi

nonostante la sua imposizione non fosse, all’epoca, un preciso intento dei Romani.

Il suo apprendimento richiede tempi molto lunghi; i popoli mediterranei parlavano

lingue diverse tra loro e ciascuno, con i propri tempi, ha dovuto adattarsi al nuovo

idioma. Il latino, lingua del conquistatore, si sovrappone alle lingue italiche

preesistenti, è imposto dall’alto, accettato e condiviso dalle popolazioni

conquistate, e costituisce il superstrato linguistico. Alla base rimangono le lingue

delle varie etnie, che fungono da sostrato, e che influenzano e condizionano il

latino (Gensini, 1988/1992). Ogni popolo parla latino con il proprio accento e

questo porta alla creazione di varianti che con il tempo possono trasformare

profondamente la lingua; i parlanti farciscono il latino con parole appartenenti al

proprio idioma, aumentando ancora di più le differenziazioni. Il latino, lingua di

superstrato, è quindi un sistema linguistico unitario che presenta, al suo interno,

delle differenziazioni. La diversificazione è dovuta anche all’uso e ai contesti. Si

sviluppano un latino militare, uno filosofico, uno commerciale, uno politico, uno

proprio degli intellettuali, e uno colloquiale e quotidiano, informale, parlato dalla

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plebe. Si possono individuare delle varietà dal punto di vista verticale, cioè un

latino colto, uno colto informale e uno popolare (Gensini, 1988/1992).

Essendo presente un sostrato composto da vari idiomi, molte parole della lingua

italiana odierna, discendenti dal latino, derivano a loro volta dalle lingue prelatine

e grazie agli studi dei linguisti è stato possibile risalire alla loro origine. È

interessante notare come queste parole siano tratte dall’ambiente in cui era

utilizzata la lingua a cui appartenevano; per esempio, la parola “betulla” ha origini

celtiche. Inoltre, da ogni lingua il latino si è arricchito di termini usati in ambiti

specifici, a seconda del prestigio di cui queste godevano. Al contrario degli altri

popoli italici, gli Etruschi e i Greci costituivano due civiltà dal livello culturale molto

alto, dunque le loro lingue hanno trasmesso al latino una terminologia legata per lo

più all’ambito civile e politico, commerciale, artistico e filosofico.

I collegamenti con queste lingue del passato non sono solo costituiti da termini

derivanti da esse, ma anche da alcuni modi di parlare che si sono mantenuti nei

secoli. Si sono trasmessi alcuni fenomeni fonetici, come, per esempio, il tipico

suono [k] aspirato toscano tra vocali, così come il suono [si] che si trova nei dialetti

del nord Italia. La presenza delle lingue italiche si può anche riscontrare nella

toponomastica: “Ravenna” ha origini etrusche e i nomi terminanti in –asco in

Liguria discendono da nomi etnici liguri dell’epoca prelatina; dall’etrusco i romani

hanno tratto i suffissi “–enna”, “-ina” e “–na”.

Con la caduta dell’impero romano, avvenuta nel 476 d.C., le varianti presenti in

Italia hanno la possibilità di diffondersi, in quanto il centro coeso rappresentato da

Roma viene meno e con esso anche la norma latina. Il disfacimento dell’impero

segna anche una grande crisi politica, che porta il popolo ad allontanarsi dalla

cultura, causando fenomeni come l’analfabetismo e, in generale, una

semplificazione del latino. In particolare, aumenta il divario già esistente tra lingua

scritta e orale, che diventeranno due sistemi distinti. Mentre il latino scritto

rimarrà fedele alla norma classica e sarà più duraturo e molto meno incline ai

mutamenti, il latino orale subirà delle evoluzioni profonde che si differenzieranno a

seconda della zona; è infatti proprio da esso che derivano le lingue romanze (o

neolatine).

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Molti altri cambiamenti derivano dai popoli che hanno concorso a causare la

disfatta dell’impero romano: i popoli germanici. Man mano che essi entrano a fare

parte del panorama sociale, politico e culturale dell’ex impero, molti dei loro

termini s’inseriscono nella lingua latina, già profondamente differenziata. Questo

fenomeno si è verificato in due fasi; la fase antica corrisponde al periodo storico in

cui i barbari vengono arruolati nell’esercito romano e iniziano a partecipare alla

vita politica. A questo periodo si fanno risalire i primi influssi germanici. Il latino

acquisisce termini relativi agli animali che si trovano nel nord Europa, come alces o

taxo; parole che designano usi e costumi propri delle popolazioni nordiche, come

“vanga”, “arpa”, “stalla”, “borgo” o “fresco”. Un cambiamento lessicale risalente a

questo periodo è l’introduzione del termine werra, da cui deriverà “guerra”, che

prende il posto di bellum; a oggi della parola latina rimane solo l’aggettivo “bellico”.

Segue una seconda fase risalente ai primi insediamenti barbari in Italia, che si

suddivide in tre momenti: inizialmente giungono nella penisola gli Ostrogoti, che

immettono nella lingua molti vocaboli relativi alla guerra. Alcuni esempi sono

“elmo”, dal goto hilms, o “albergo”, da haribergo, che denomina l’alloggio per i

militari. Altri termini apportati da questa popolazione sono “fiasco”, da flaskun,

“stecca” da stika e “nastro” da nastilo; queste tre parole in particolare si ritiene che

derivino specificamente dall’ostrogoto in quanto si trovano solo in italiano.

Particolarmente interessante, e sempre risalente a questo periodo, è l’innesto di

prefissi latini come ad, cum o ex su basi ostrogote, che producono parole come

“arredare”, “corredare” e “smagare”.

In un secondo momento giungono in Italia i Longobardi, i quali si stanziano a

macchia di leopardo in quasi tutta la penisola, in particolar modo al centro-nord. IL

loro lingua è molto rozza in confronto al latino, che essi scelgono di mantenere

come lingua scritta. Dal punto di vista del parlato, la lingua del popolo germanico

conquistatore e quella del popolo latino conquistato si fondono, soprattutto dopo

la conversione al cattolicesimo da parte dei Longobardi, avvenuta nel 603. Essi

assimilano man mano il latino, apportandovi parole dalla loro lingua. Troviamo

degli esempi nella toponomastica (basti pensare a “Lombardia”, da “Longobardia”).

La parola “gruccia”, già analizzata nel capitolo precedente, viene introdotta dai

Longobardi ed è, infatti, diffusa solo nel nord e nel centro Italia.

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Il terzo momento della seconda fase vede l’arrivo dei Franchi, che si stabiliscono

anch’essi nel centro-nord italiano. Da questa popolazione giungono molti termini

riguardanti l’organizzazione della società, tra cui “feudo”, “vassallo”, di origine

celtica, “ligio” e “barone”, dal germanico baro, uomo libero.

Oltre alle popolazioni germaniche, c’è un altro responsabile dei mutamenti che

hanno portato il latino a volgarizzarsi sempre di più, per poi differenziarsi nelle

varie lingue romanze: il Cristianesimo. La sua lingua originaria è l’ebraico,

sostituito poi dal greco, che diviene dunque la lingua ufficiale della Chiesa; il latino

lo diventa solo in un secondo momento, per poter diffondere la Parola tra le masse

popolari nel momento della diffusione del Cristianesimo in Occidente. Il

Cristianesimo ha un ruolo fondamentale nella nascita delle lingue romanze e a esso

si devono molti termini utilizzati ancora oggi, non solo in ambito religioso. Molti

vocaboli hanno infatti perso il loro riferimento alla religione nel passaggio dal

greco al latino; per esempio “parola” deriva dal latino parabola che deriva, a sua

volta, dal greco parabolè, ma inizialmente questi termini stavano a significare

“parola divina”; il significato è poi diventato “parola” nel senso di “vocabolo”. Al

contrario, parole come paganus o pius acquistano un significato religioso, mentre

originariamente significavano rispettivamente “non soldato” (successivamente

inteso come “non soldato di Cristo”) e “onesto” (che ha amplificato il proprio

significato a “religioso”). Infine, il Cristianesimo introduce un numero elevato di

grecismi, essendo il greco la sua lingua originaria; tra questi vocaboli si trovano

ecclesia, monachus o basilica. Alcune parole hanno subìto invece una doppia

evoluzione, poiché in greco erano dei calchi dall’ebraico; tra queste vi è “angelo”,

dal latino angelus che traduce il greco ànghelos, a sua volta derivante dall’ebraico

mal’ākh, che significa “messaggero”.

I fenomeni linguistici dovuti a reciproche influenze tra le lingue riguardano non

solo la sfera orale, ma anche quella scritta. Nel 347 Girolamo traduce la Bibbia in

latino, a partire dalle lingue originarie, l’ebraico e il greco. La sua versione viene

definita “Vulgata”. Girolamo utilizza un latino scritto vicino alla lingua del popolo

perché considera il fattore educativo più importante della correttezza

grammaticale o dello stile. In questo modo contribuisce ai mutamenti che

avvengono anche nella lingua scritta (Gensini, 1988/1992).

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Entrando maggiormente nei particolari della lingua e tralasciando le differenze di

evoluzione a livello regionale, si possono individuare una serie di mutamenti

fonetici che hanno interessato in generale il latino in tutta la penisola. Vi sono tre

ragioni principali per cui questi cambiamenti avvengono:

 La semplificazione articolatoria; essa causa la perdita di vocali, consonanti o

sillabe. Nel momento in cui si parla la lingua in modo informale, si tende a

elidere, o modificare, alcune parti di parole in modo da pronunciare le stesse in

modo più veloce e semplice. A lungo andare, questi errori sporadici si

mantengono e la pronuncia cambia anche in un contesto formale.

 L’interferenza acustica; essa avviene nel momento in cui la distinzione di due

fonemi vicini non è percepita facilmente, così uno dei due finisce per

sovrapporsi all’altro che invece scompare. Nello scritto, però, non è sicuro che lo

spelling si adatti a questo cambiamento; nella lingua ormai evoluta, perciò, sarà

possibile trovare parole scritte in modo diverso da come si pronunciano, che

rappresentano un retaggio della lingua antica.

 L’innovazione; essa avviene in modo graduale e i parlanti se ne rendono conto

dopo un certo lasso di tempo. Un esempio è il Grande Spostamento Vocalico

(Great Vowel Shift) che ha causato il cambiamento radicale della pronuncia delle

vocali nella lingua inglese (Peterson, 2015).

Uno dei primi cambiamenti fonetici nel passaggio dal latino al volgare è la perdita

della quantità vocalica. In latino, per distinguere le vocali, si utilizza anche la loro

lunghezza, che permette di distinguere i significati di vocaboli apparentemente

identici. La pronuncia, breve o lunga, che si ottiene soffermandosi di più o di meno

sulla vocale, permette di individuare, per esempio, due [o], o due [e], diverse tra

loro. Per esempio, la parola ŏs (o breve) significa “osso”; la parola ōs (o lunga)

significa “bocca”. Siccome non tutte le popolazioni in Italia riconoscono tali

distinzioni, poco a poco le vocali subiscono un profondo mutamento e si

trasformano in vocali aperte o chiuse (eccezion fatta per la a).

Si è inoltre verificata la sincope della vocale postonica interna, ovvero la vocale che

si trova dopo quella accentata all’interno di una parola è stata poco a poco

eliminata. Ecco dunque che da speculum si passa a speclum, da cui “specchio”

(Gensini, 1988/1992); sarebbe possibile proporre innumerevoli altri esempi, In

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quanto si tratta di un fenomeno molto diffuso che ha interessato un numero

altissimo di parole.

Un terzo cambiamento è il passaggio da iato a yod (Gensini, 1988/1992); con iato

s’intende “un gruppo di due vocali consecutive pronunciate in modo distinto e

appartenenti a due sillabe diverse” (Iato, 2012). Lo yod, al contrario, è una

semiconsonante e si pronuncia con una sola emissione sonora. Due esempi di

questo mutamento sono il passaggio da caseum (in cui ae è iato) a casium (la i e la u

vengono pronunciate come se fossero una sola lettera, con una sola emissione di

voce) o il passaggio da alea ad alia.

Un altro fenomeno di cambio vocalico è il passaggio dalla u alla o, come da columna

a colomna, divenuto poi “colonna”.

La monottongazione è un altro fenomeno fonetico diffuso che avviene quando un

dittongo o un trittongo si trasformano in una vocale semplice, come nel caso di

aurum divenuto “oro”.

Infine, per quanto riguarda le vocali, è avvenuto uno spostamento d’accento nelle

parole con i o e posizionate in penultima sillaba con la presenza di una vocale

breve, come si può notare in filīolus che passa a filiólus, trasformatosi in figliolo.

Anche il sistema delle consonanti ha subìto vari mutamenti; alcune di esse che si

trovavano originariamente alla fine delle parole sono scomparse, come flores,

trasformatosi in “fiore”. Altre lettere che si trovavano in diversi punti sono cadute

in disuso: è il caso della “h” aspirata, scomparsa da parole come adhuc, diventata

“aduc” e della v intervocalica sostituita spesso dalla u (per esempio cantavit si

trasforma in cantaut e in seguito “cantò”). Le lettere t e d seguite da yod hanno

subito un processo di assibilazione, che consiste nel mutamento di una consonante

occlusiva in una sibilante. Per esempio, medium si è trasformato in “mezzo” e

nationem in “nazione”. Un altro cambiamento di pronuncia è avvenuto per le lettere

c e g; inizialmente erano delle occlusive velari, ma si sono trasformate in palatali,

dunque la loro pronuncia si è addolcita. Infine, in molte parole è avvenuta una

confusione tra la b e la v, come nel caso di alveus trasformatosi in albus da cui

deriva “bianco”, o plevis divenuto plebes.

Anche la morfologia e la sintassi sono state interessate da importanti mutamenti;

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in generale si sono semplificate come conseguenza del calo della cultura e della

ricomparsa dell’analfabetismo. Innanzitutto è da segnalare la scomparsa del genere

neutro, che lascia solo il maschile e il femminile; le parole che prima erano neutre

diventano maschili (per esempio “il mare” oggi è maschile, ma un tempo era

neutro), ma alcuni neutri plurali si trasformano in femminili (da labrum derivano

“il labbro” e “le labbra”). Il cambiamento più noto è la scomparsa dei casi, che ha a

sua volta causato altri mutamenti, poiché, per sostituire le desinenze, è stato

necessario creare degli elementi aggiuntivi per indicare il valore semantico di una

parola all’interno della frase. Sono dunque nate le preposizioni articolate, io

pronomi, i dimostrativi e gli articoli determinativi e indeterminativi; essi

discendono dai dimostrativi, che con l’abbandono dei casi hanno viso indebolirsi la

loro funzione. Ille si trasforma in “il”, da unus si sviluppa “un”. Inoltre il sistema

verbale si è semplificato.

Nonostante questi cambiamenti abbiano interessato in generale tutta la zona

latina, bisogna considerare che sono sempre esistite differenze diatopiche, dovute

alla presenza di popolazioni diverse stanziate nei vari luoghi; tali differenze si sono

accentuate nel corso del processo di trasformazione del latino.

Nonostante i grandi cambiamenti comuni, l’evoluzione del latino ha prodotto non

una sola lingua, bensì l’insieme delle lingue romanze, o neolatine, che

comprendono anche i dialetti italiani. In Italia, nel IV secolo, si possono distinguere

cinque zone di latinità che presentano, dal punto di vista linguistico, delle

differenze considerevoli le une dalle altre. Partendo dal nord, si trova una zona di

latinità settentrionale, che comprende Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia-

Romagna e Friuli: queste regioni hanno subito forti influenze galliche. Sempre al

nord Italia si trova una zona di latinità cosiddetta euganea: essa comprende il

Veneto che, pur trovandosi nel settentrione, non ha subìto influenze dalle lingue

galliche. Poco più a sud, vicino al centro Italia, si contraddistingue la zona di latinità

toscana; questa zona è molto importante per il futuro sviluppo della lingua italiana,

in quanto il dialetto toscano è, tra tutti, quello rimasto nei secoli più vicino al latino

classico e quello che funge da base per l’italiano letterario prima e poi per l’italiano

standard, parlato oggi. Nella valle del Tevere e verso l’Adriatico si trova una zona di

latinità mediana, la cui lingua è più vicina ai dialetti del sud e presenta influenze

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umbre. Infine, nel sud si trova una zona di latinità meridionale, caratterizzata però

da alcuni fenomeni linguistici particolari. Nell’Italia del sud sono infatti presenti

delle isole di grecità, sopravvissute probabilmente alla romanizzazione. Inoltre,

rappresenta un caso particolare il Salento, dove viene mantenuta una tradizione

linguistica messapica non essendo il luogo mai stato raggiunto dai Sanniti; per

questo motivo le pronunce sono tendenzialmente più conservative e rendono

quindi il dialetto di questa zona più vicino a quello toscano, rispetto a quelli

meridionali (Gensini, 1988/1992).

3.1.2 Dall’alto valyriano al basso valyriano

Fino a ora si è parlato di basso valyriano in generale, ma è opportuno fare alcune

distinzioni importanti. Mentre l’alto valyriano originario era un sistema linguistico

unitario, il basso valyriano si divide in tre gruppi, che corrispondono alle zone in

cui ognuno di essi è parlato. Il valyriano settentrionale è parlato nelle città di

Braavos, Lorath, Pentos, Qohor e Norvos (segnate in blu nella mappa che segue); il

valyriano meridionale è parlato a Myr, Tyrosh, Lys e Volantis (segnate in giallo nella

mappa); infine, il valyriano ghiscariano è parlato ad Astapor, Yunkai e Meereen

(segnate in rosso nella mappa), le tre città della baia degli schiavisti; questa zona

corrisponde all’antico impero di Ghis, che fu distrutto e conquistato dai Valyriani

(Valyrian Historical Linguistics, 2016).

Il fatto che da una lingua unitaria si siano sviluppate tutte le varianti sopra elencate

è una conseguenza dei fatti storici, che hanno una forte influenza sulle lingue.

Il primo avvenimento che causa l’inizio dei cambiamenti è la conquista dell’impero

di Ghis da parte dell’impero della Libera Fortezza, che distrugge la capitale

ghiscariana Vecchia Ghis. A questo punto, la cultura valyriana s’impone su quella

ghiscariana e la conseguenza è la sostituzione della lingua stessa. Questo processo,

tuttavia, richiede del tempo, in quanto sono necessarie almeno tre generazioni

perché una lingua scompaia del tutto in una singola famiglia. Prima che il

ghiscariano sia del tutto sostituito dal valyriano, passano circa cinque o sei

generazioni. Mentre i romani non avevano imposto l’uso del latino ai popoli

conquistati, si pensa che fosse un preciso intento dei Valyriani arrivare a diffondere

il loro idioma in modo da poter facilitare gli scambi in tutto il loro vasto impero. Il

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Figura 2: Mappa di Essos con le città libere e ValyriaImmagine reperita da Google immagini e

modificata da me

ghiscariano, tuttavia, si comporta all’incirca come le lingue dell’Italia antica;

scomparendo, esse lasciano in eredità alla lingua egemone alcuni dei loro vocaboli.

Ed ecco che alcuni termini ghiscariani vengono immessi nell’alto valyriano, che

tuttavia mantiene la sua forma grammaticale intatta. I territori conquistati

acquisiscono il valyriano, lingua importante perché utilizzata dalla forza egemone e

imposta dalla classe dominante.

Il Disastro di Valyria, causato da un cataclisma, segna un punto di rottura con i

territori conquistati dall’impero in quanto il suo centro nevralgico viene a mancare.

Da questo momento il valyriano, parlato nelle varie città dell’impero, inizia a

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differenziarsi sempre di più, fino a trasformarsi in varie derivazioni della lingua

madre che si distinguono le une dalle altre. Nella Baia degli Schiavisti, l’unico luogo

fino a questo punto della serie televisiva in cui si è sentito parlare il basso valyriano,

si creano quindi tre varietà corrispondenti alle tre città maggiori: Astapor, Yunkai e

Meereen. Mentre astaporiano e yunkai sono piuttosto simili tra loro, il meereense

costituisce un caso particolare. Meereen è la città più grande della baia e dunque è

quella con il maggior numero di abitanti di bassa estrazione sociale. Siccome questa

parte di popolazione è meno istruita, parla un basso valyriano più rozzo e ciò

influenza profondamente la lingua. Le differenze fra i tre idiomi sono tuttavia

prettamente fonetiche, in quanto la grammatica è pressoché la medesima.

Prima del Disastro e della conseguente distruzione di Valyria, una delle nobili

famiglie della Libera Fortezza, i Targaryen, si stabilisce sull’isola di Roccia del

Drago, avamposto più vicino al Continente Occidentale. Grazie alla sua fuga è

l’unica famiglia originaria di Valyria a sopravvivere al cataclisma ed è anche l’unica

a conservare la norma classica della lingua valyriana (Peterson, 2014).

Mentre inizialmente i Valyriani si limitano a commerciare con Westeros, i Targaryen

decidono di iniziarne la conquista; Aegon I il Conquistatore è l’autore dell’impresa,

insieme alle sorelle mogli Visenya e Rhaenys (García et al. 2014). Durante la

Conquista, i Targaryen si adattano alla lingua del nuovo continente e iniziano a

parlare la lingua comune dei Sette Regni, pur mantenendo il valyriano tra di loro.

Anche dopo la fine delle guerre di Conquista, i discendenti di re Aegon si

trasmettono l’un l’altro l’antica lingua della Libera Fortezza, senza risentire in alcun

modo delle varietà di basso valyriano che vanno sviluppandosi nello stesso momento

nelle città ormai libere di Essos. Siccome l’incesto è un’antica tradizione valyriana, io

Targaryen non mischiano il loro sangue con quello del popolo di Westeros e questo

fattore aiuta a mantenere la lingua pura, oltre che il sangue. Dopo un certo periodo,

tuttavia, la pronuncia valyriana viene intaccata dalla lingua comune; infatti,

nonostante i Targaryen abbiano conservato perfettamente la grammatica originaria,

la pronuncia delle lettere j e v è cambiata nel corso dei secoli.

Un caso particolare è rappresentato dall’unica discendente dei Targaryen ancora in

vita: Daenerys Targaryen, che impara l’alto valyriano dal fratello maggiore Viserys,

anche se i due non crescono a Roccia del Drago o nel Continente Occidentale. Il loro

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padre, Aerys II detto il Re Folle, viene infatti spodestato e ucciso in seguito a una

ribellione capeggiata dalla casa Baratheon, che s’installa sul Trono di Spade.

Essendo gli unici sopravvissuti della loro nobile casata, costituiscono entrambi una

minaccia al potere del nuovo re, Robert I; nei primi anni del suo regno, egli manda

diversi sicari contro i due discendenti, cercando di eliminarli. Daenerys e Viserys

sono quindi costretti a fuggire di città in città nel continente orientale. In questi

luoghi i due fratelli entrano in contatto con molte varietà di basso valyriano e ciò

dona a Daenerys la possibilità di assimilarne qualche parola e la costruzione

sintattica, nonostante lei parli l’alto valyriano.

Il fatto che l’alto valyriano abbia iniziato a evolversi profondamente solo dopo il

Disastro significa che fino a quel momento la lingua era rimasta sostanzialmente

intatta. Tuttavia, ben cinquemila anni separano gli albori dell’impero della Libera

Fortezza dal Disastro, dunque nella realtà è improbabile che una lingua non subisca

mutamenti sostanziali in un lasso di tempo così ampio. A partire dal cataclisma,

invece, l’evoluzione dell’alto valyriano è accelerata incredibilmente e in appena tre

secoli si sviluppano le varianti di basso valyriano. A tal proposito, Peterson pensa

che tale accelerazione sia dovuta principalmente alla distanza da Valyria e dal

contatto del valyriano con altre lingue (Peterson, 2014).

Nonostante si siano sviluppate molte varianti di basso valyriano, sono presenti dei

mutamenti comuni, come nel caso del latino. Per quanto riguarda le vocali, mentre

il latino ha perso la differenza tra vocali brevi e lunghe, che sono diventate chiuse e

aperte, tutte le vocali dell’alto valyriano sono diventate brevi. Le lettere che prima

formavano un dittongo, nel basso valyriano vengono sostituite da una singola

lettera. Per esempio, si passa da ao a o, come in dovaogēdy (immacolato) che si

trasforma in dovoghedhy; da ae a e come in hae (come) che diviene he e da a:e a aj

come nella parola āeksio (signore) che diventa aeske. La u e la i, quando si trovano

all’inizio di una parola e precedono una vocale, divengono fricative; per esempio, ūī

diviene vi, mentre iōragon (alzarsi) diventa joragho. La e e la o si trasformano

rispettivamente in i e u quando accentate, come accade alla parola hen (da oppure

di), divenuta hin, e kona (quello), divenuta kuna.

Anche le consonanti si sono molto modificate, soprattutto in base al principio della

semplificazione articolatoria. Le occlusive sonore tra due vocali si sono trasformate

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in fricative sonore, come jēlēbagon (soffiare) che diventa jelevagho. Le occlusive e le

fricative sorde tra due vocali sono diventate sonore, come otāpagon (pensare)

trasformatosi in odabagon e kesa (questi) divenuto kiza. La s seguita da

un’occlusiva ha subito una metatesi, fenomeno linguistico per cui due suoni

s’invertono tra loro all’interno della stessa parola. Per esempio, rytsas (ciao) si è

trasformato in rysta. Ancora la s è scomparsa se si trovava prima di un’occlusiva tra

due vocali, come nella parola ivestragon (dire) divenuta ivetragho. Le occlusive

sorde situate prima di una t hanno subito una debuccalizzazione, ovvero un

fenomeno fonetico che causa un cambiamento nella pronuncia della consonante; E

può notare questo mutamento nella parola teptan (forma perfetta di tepagon,

“dare”) divenuta tehtan. Infine, la i posizionata tra un’occlusiva e una liquida tra

due vocali viene eliminata, come si può riscontrare in kostilus (forse), divenuto

kotlu (Valyrian Historical Linguistics, 2016).

A livello morfologico, l’alto valyriano ha un complesso sistema di casi, proprio

come il latino; nel passaggio al basso valyriano questo sistema è cambiato, ma i casi

non sono andati del tutto perduti. Come per il latino sono stati aggiunti gli articoli

determinativi e indeterminativi, che nella lingua antica non erano presenti; si può

presumere che in un’ipotetica evoluzione ulteriore i casi scompaiano

completamente.

Questi mutamenti, tuttavia, non sono uguali in tutto il continente orientale; ad

Astapor gli articoli determinativi sono tre, due per il singolare (ji e vi o j’ e v’

davanti ai sostantivi che iniziano con una vocale) e uno per il plurale (po e p’). IL

differenza tra ji e vi consiste nella classe a cui appartiene il sostantivo a cui essi si

riferiscono (Peterson, 2013).

In alto valyriano esistono quattro classi, o generi, di nomi, Terrestre, Acquatica,

Solare e Lunare, che si suddividono in sei declinazioni (High Valyrian Noun

Declensions, 2016).

Nel passaggio al basso valyriano le classi si riducono a due: Celestiale, che

comprende le ex Solare e Lunare, e Terrestre, che comprende le ex Terrestre e

Acquatica.

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Genere

Alto valyriano

Genere

Basso valyriano

Italiano

Solare

Lunare

qablos

pēko

Terrestre

belmon

Acquatico

jēdrar

Celestiale

Terrestre

ji qablo

ji pegu

vi bilmo

vi jedror

Fegato

Oliva

Catena

Anno

Tabella 2: Evoluzioni delle classi dall’alto valyriano al basso valyriano – Tabella tradotta da A

language of thrones (Peterson & Language Creation Society, 2013)

Ji viene utilizzato con la classe Celestiale, mentre vi con la Terrestre (Peterson, 2013).

Esiste poi un unico articolo indeterminativo, corrispondente a me o mi (Astapori

Valyrian Vocabulary, 2016). Nella città di Meereen, invece, si sono sviluppati articoli

diversi. L’articolo determinativo è ye, utilizzato solo con i sostantivi appartenenti alla

classe Celestiale; il plurale, simile all’astaporiano, è pa o p’, mentre l’articolo

indeterminativo è ma. Un altro mutamento importante riguarda il sistema numerico,

che da singolare, plurale, paucale e collettivo passa ad avere solo singolare e plurale.

La sintassi, cioè l’ordine della frase, ha subito varie modifiche che l’hanno resa molto

più semplice. Innanzitutto il verbo non deve più essere messo esclusivamente al

fondo della frase come in alto valyriano, ma può trovarsi anche dopo il soggetto.

Inoltre, grazie all’inserimento degli articoli, la frase risulta più lineare e l’ordine delle

parole non è più confusionario. Anche guardando all’evoluzione del latino si può

riscontrare una semplificazione di questo tipo, infatti le frasi in basso valyriano sono

in un certo senso simili a una frase italiana o inglese.

La frase che segue vuole dimostrare la somiglianza e la serie di mutamenti

linguistici che hanno interessato l’alto valyriano.

Figura 3: Mutamenti linguistici dall’alto valyriano al basso valyrianoA language of thrones

(Peterson & Language Creation Society, 2013)

60

Si nota innanzitutto l’aggiunta degli articoli determinativi e della parola vali

(uomini) assenti in alto valyriano (evidenziati in grassetto). L’ordine delle parole è

drasticamente cambiato e ora la frase segue quasi l’ordine italiano. Tutti gli altri

cambiamenti sono di tipo fonetico, come morghot (morte) che diventa murgho

(Peterson, 2013).

Complessivamente però, le frasi si assomigliano, seppur lievemente, e si può

immaginare che, più o meno, appartengano alla stessa lingua. Ciò non accade con il

valyriano di Meereen, che presenta mutamenti fonetici che lo allontanano in modo

molto evidente dall’alto valyriano, come si può notare nella frase che segue.

Mittys iksā. Āeksia tolī kostōbi issi. (Alto valyriano)

Ska me gurp. P’aeske si kotovi uvuve. (Astaporiano)

Shka ma khurf. P’ashkesh she kraj waov. (Meereense)

Sei un illuso. I Padroni sono troppo forti.

(Peterson, 2014).

3.2 Analogie e differenze tra latino e alto valyriano

Il confronto tra latino e alto valyriano non riguarderà solo il punto di vista

linguistico, ma saranno prese in considerazione anche le culture dei due popoli.

Non saranno trattati tutti i punti che le due lingue hanno in comune affinché la

trattazione non risulti eccessivamente lunga e per la carenza di materiale sull’alto

valyriano. Saranno dunque analizzati gli argomenti più importanti e caratteristici.

Iniziando con il confronto linguistico, la prima analogia che si può facilmente nota-

re è la somiglianza del sistema di casi e declinazioni. Come già accennato, il valyria-

no si avvale di quattro classi, o generi: Solare, Lunare, Acquatico e Terrestre, ai qua

li si aggiungono sei declinazioni. I sostantivi di ciascuna classe, tuttavia, non seguo-

no tutte le sei declinazioni, come dimostrato in tabella (pagina seguente).

Osservando la lettera finale di un sostantivo al nominativo è possibile riconoscere a

quale classe appartenga. I sostantivi che terminano con –s fanno parte della classe

Solare; se terminano con una vocale fanno parte della classe Lunare; quelli terminan-

ti in –r appartengono alla classe Acquatica e quelli che terminano in –n sono della

classe Terrestre. Osservando invece la vocale che precede l’ultima lettera, si può rico-

noscere la declinazione che segue il sostantivo; quelli che fanno parte della classe Lu-

61

nare costituiscono un’eccezione, in quanto l’ultima lettera permette di riconoscere

sia la classe sia la declinazione a cui appartiene il sostantivo.

Classi

Solare

Lunare

Acquatico

Terrestre

Prima declinazione

seconda declinazione

terza declinazione

quarta declinazione

quinta declinazione

-a

-y

-o

-e

-i

-ar

-or

-ir

-ys

-os

-es

-is

-en

Tabella 3: Declinazioni e classi dell’alto valyrianoInformazioni reperite da High Valyrian Noun De-

clensions, 2016

La sesta declinazione, che non compare in tabella, è utilizzata per vari tipi di so-

stantivi, che possono essere divisi in tre categorie: i nomi stranieri, i collettivi e i

paucali rianalizzati.

I sostantivi stranieri sono tutti quei nomi che provengono da altre lingue e che non

sono stati completamente accettati dall’alto valyriano; si tratta dunque di prestiti.

Un esempio è la parola buzdar(io) (schiavo).

I collettivi rianalizzati sono dei sostantivi che originariamente costituivano la ver-

sione collettiva di un sostantivo, ma con un significato ulteriore; un esempio è

azantyr. Teoricamente è il collettivo di azantys, che significa “soldato”, ma ha acqui-

sito un ulteriore significato, cioè “esercito”. A questo punto è stato necessario attri-

buire a tutti questi sostantivi una declinazione a parte, ovvero la sesta. È importan-

te notare che questi nomi mantengono il genere della parola da cui derivano, dun-

que nel caso di azantyr il genere sarà solare, dato che il nominativo singolare ter-

mina con –ys.

I paucali rianalizzati si comportano nella stessa maniera; il paucale di un sostantivo

ha acquisito un significato ulteriore, tanto che è stato necessario considerare quel

paucale come una parola diversa con una sua propria declinazione, ovvero la sesta.

Un esempio è la parola tīkun, che acquisice il significato di “ala” ma deriva da tīkos,

“piuma”.

62

Analizzando nel dettaglio la prima declinazione, troviamo solo sostantivi di genere

Lunare e Acquatico. Tuttavia, è presente un sottogruppo; infatti, i sostantivi lunari

possono terminare con una consonante seguita da a, come vala (uomo), oppure

con –ia, come dāria (regina). I nomi come “regina” si declinano in modo lievemente

diverso in quanto assumono lettere differenti nei seguenti casi: strumentale, comi-

tativo e vocativo singolare; genitivo, dativo, locativo, strumentale e comitativo plu-

rale; tutti i casi al paucale.

La seconda declinazione, così come la quarta e la quinta, non prevede eccezioni. IL

terza declinazione comprende i sostantivi di tutti i generi, ma per ciascuno di essi è

presente un sottogruppo.

Per la classe Lunare, i cui sostantivi terminano in –o, vi è il sottogruppo per i nomi

che terminano in –io, come āeksio (signore). I casi differenti sono i seguenti: stru-

mentale e comitativo singolare; genitivo, dativo, locativo, strumentale, comitativo e

vocativo plurale; tutti i casi al paucale; tutti i casi, tranne il nominativo, al collettivo.

I sostantivi della classe Solare terminano in –os, ma vi sono ben tre sottogruppi che

valgono per le parole come rūs (bambino), deks (cibo), ȳs (arte). Il primo sotto-

gruppo è caratterizzato da una radice che termina in –h, la quale però non compare

in tutti i casi. Il secondo e il terzo sottogruppo si comportano allo stesso modo, mamma

al posto della h hanno rispettivamente una –k e una –v.

I sostantivi della classe Terrestre che terminano in –on hanno un sottogruppo che

termina invece con –ion, come il termine dārion (regno). Per questa categoria cam-

biano i seguenti casi: strumentale e comitativo singolare; genitivo, dativo, locativo,

strumentale, complemento di compagnia e vocativo plurale; tutti i casi al paucale;

tutti i casi tranne il nominativo al collettivo. Infine, i sostantivi della classe Acquati-

ca terminano in –or, ma è presente la sottocategoria necessaria per parole come

Mȳr (città). Gli unici casi a essere diversi da quelli ordinari sono tutti i casi del pau

cale (High Valyrian Noun Declensions, 2016).

In latino non ci sono sei declinazioni, bensì solo cinque, dunque ecco una prima dif-

ferenza. Una seconda riguarda i generi: mentre l’alto valyriano ne possiede quattro,

il latino ne ha solo tre, ovvero maschile, femminile e neutro.

I sostantivi della prima declinazione terminano con –ă al nominativo e si possono

trovare solo nomi di genere maschile e femminile. L’unico caso particolare è

rappresentato dai sostantivi deă (dea), filiă (figlia), equă (giumenta) e libertă

63

(liberta); questi nomi formano il dativo e l’ablativo plurale in –ābus anziché –īs.

La seconda declinazione raggruppa i sostantivi che terminano in –us, –er e –ŭm e al

genitivo singolare in –ī. I sostantivi in –us hanno la desinenza –ĕ al vocativo, mentre

quelli terminanti in –er hanno il vocativo uguale al nominativo. È presente una

particolarità nei sostantivi in –er, in quanto alcuni, come libĕr (libro), mantengono

la e nella radice solo al nominativo e al vocativo singolare. In tutti gli altri casi la e

viene rimossa, riducendo la radice a libr-. I sostantivi terminanti in –ŭm hanno

invece un paradigma con varie differenze, a parte il nominativo singolare

terminante in – ŭm anziché –us: il vocativo singolare termina con –ŭm anziché con

–ĕ, e il nominativo, l’accusativo e il vocativo plurale terminano tutti con –ă, anziché

differenziarsi in –ī (nominativo e vocativo) e –ōs (accusativo).

La maggior parte dei sostantivi terminanti in –us sono maschili; sono femminili alcuni

nomi di piante, come pōpulus (pioppo), pirus (pero), malus (melo), alcuni nomi di città,

come Corinthus (Corinto), o Rhodus (Rodi), e alcuni nomi di origine greca, come

methodus (metodo). I nomi in –er sono solo maschili e in –ŭm solo neutri.

I sostantivi che fanno parte della terza declinazione possono essere di tutti e tre i

generi e il nominativo non ha una desinenza comune, dunque si riconoscono dal

genitivo, il quale termina in –is. All’interno di questa declinazione esistono varie

particolarità in base al tipo di sostantivo, che può essere parisillabo o imparisillabo.

Imparisillabi sono i nomi che hanno al genitivo singolare una sillaba in più rispetto

al nominativo come, per esempio, rex, che al nominativo ha una sola sillaba e al ge-

nitivo due (regis), e tempus, che al nominativo ha due sillabe e al genitivo tre (tem-

poris). Parisillabi sono i nomi che al nominativo e al genitivo hanno lo stesso nume-

ro di sillabe come, per esempio, hostis, che al nominativo ha due sillabe e al genitivo

di nuovo due (hostis). Presentano una doppia uscita i seguenti casi: accusativo sin-

golare maschile e femminile (-ĕm, -ĭm); ablativo singolare maschile, femminile e

neutro (, ĭ); nominativo, accusativo e vocativo plurale neutro (, -iă); genitivo

plurale maschile, femminile e neutro (-ŭm, -iŭm); accusativo plurale maschile e

femminile (-ēs, -īs). Sono inoltre presenti alcuni sostantivi dalla declinazione irre-

golare, come bōs, bŏvis bovi, bovem, bos, bŏve; boves, boum, bubus, boves, boves, bu-

bus (bue/mucca).

Nella quarta declinazione si trovano nuovamente nomi appartenenti a tutti e tre i

64

generi; i maschili e i femminili terminano al nominativo in –ŭs, mentre i neutri in –

ŭ. Questi ultimi presentano una declinazione abbastanza diversa dai sostantivi ma-

schili e femminili; oltre al nominativo, divergono anche dativo, accusativo, vocativo

e ablativo singolare e nominativo, accusativo e vocativo plurale.

Nella quinta e ultima declinazione si trovano esclusivamente sostantivi femminili

che terminano con –ēs. Fanno eccezione i sostantivi diēs (giorno), che al plurale è

maschile e al singolare può essere sia maschile che femminile, e meridiēs (mezzo-

giorno), che è maschile. Eccezion fatta per diēs e rēs, gli altri nomi non hanno il plu-

rale oppure esso è presente solo al nominativo e all’accusativo (Monticini,

1977/1978).

Entrambe le lingue prese in esame presentano un sistema di declinazione dei so-

stantivi egualmente complesso e per niente immediato, come potrebbe essere

quello di una LAI. Nonostante vi siano ovviamente alcune differenze, le analogie ri-

sultano essere maggiori. È evidente in varie occasioni che Peterson si sia ispirato al

latino per creare l’alto valyriano e alcuni aspetti della sua lingua risultano forse an-

cora più complessi. Infatti, mentre il latino ha tre generi, l’alto valyriano ne ha quat-

tro; inoltre, il latino ha un solo tipo di plurale e l’alto valyriano ne ha tre (plurale,

paucale e collettivo). Nella tabella che segue vengono messi a confronto il paradig-

ma di un sostantivo valyriano e quello di uno latino, per mettere in risalto quanto

l’alto valyriano risulti più complesso.

VALA

Singolare

Plurale

Paucale

Collettivo

HOMO

Singolare

Plurale

Nom.

Acc.

Gen.

Dat.

Loc.

Strum.

Comp.

Voc.

Vala

Vale

Valo

Valot

Valā

Vali

Valī

Valoti

Valoti

Valoti

Valun

Valuni

Valar

Valari

Valuno

Valaro

Valunta

Valarta

Valunna

Valarra

Valosa

Valossi

Valussa

Valarza

Valoma

Valommi

Valumma Valarma

Valus

Valis

Valussa

Valarza

Nom.

Gen.

Dat.

Acc.

Voc.

Abl.

Hŏmo

Homines

Hominis

Hominum

Homini

Hominĭbus

Hominem Homines

Hŏmo

Homines

Homine

Hominĭbus

Tabella 4: Paradigma di un sostantivo in alto valyriano e in latino – Informazioni reperite da High

Valyrian Noun Declensions, 2016 e Grammatica latina (Monticini, 1977/1978)

65

Il sistema di flessione delle parole prevede i casi in entrambe le lingue. Ciò significa

che generalmente non vengono utilizzate preposizioni, eccetto in alcuni frangenti

per esprimere particolari messaggi. I casi sono lievemente diversi nelle due lingue.

L’alto valyriano presenta otto casi: nominativo, accusativo, genitivo, dativo, locativo,

strumentale, comitativo e vocativo. Il latino, invece, ne possiede solo sei in quanto

manca di strumentale e comitativo. Il locativo è un caso particolare: il latino ne è

sprovvisto, ma per indicare un luogo si serve di alcune preposizioni seguite da un

termine in caso ablativo o accusativo, a seconda di quello che il parlante voglia

esprimere.

Seguono due frasi esemplificative in alto valyriano, che saranno in seguito

analizzate.

Kēli Davidȳ dēmas.

Il gatto è seduto su David.

Davidys kēlī dēmas. David è seduto sul gatto.

Mentre in italiano le parole “gatto” e “David” e il verbo “sedersi” non cambiano, In

alto valyriano le lettere finali ci permettono di capire chi sia seduto su chi, In

quanto esprimono casi differenti.

Kēli, nella prima frase, è al caso nominativo: rappresenta dunque il soggetto della

frase. Nella seconda frase viene pronunciato diversamente (si noti il macron, che è

un segno diacritico usato in fonetica, sulla i finale), in quanto il caso è cambiato per

diventare locativo. Lo stesso discorso è applicabile al nome proprio Davidys, che si

trasforma in Davidȳ nel caso locativo. In italiano è presente ancora la preposizione

“su”, totalmente assente in alto valyriano in quanto già espressa all’interno del

sostantivo al caso locativo (Peterson, 2015). Questo caso particolare, dunque, dà la

possibilità di omettere una preposizione che sarebbe invece necessaria in latino

(supra) (Monticini, 1977/1978).

La frase che segue presenta un esempio in cui è necessaria anche in alto valyriano

una preposizione.

Va oktio remȳti vale jikās. Mandate un uomo alle porte della città.

In questa frase “alle porte” sarebbe teoricamente un semplice dativo, ma necessita

in realtà della preposizione va per indicare il luogo, la quale può legarsi solo con un

sostantivo al caso locativo o dativo (come nella frase proposta). A seconda del

66

messaggio che si desidera comunicare è necessario operare una scelta riguardo a

quale caso utilizzare, in quanto il significato varia; se associata al locativo, IL

preposizione va corrisponde a “verso”, “a”, “vicino” (stato in luogo), mentre se

abbinata al dativo equivale a “fino a”, “a” (moto a luogo).

Un’altra preposizione che si comporta come va è hen, la quale, associata al locativo,

significa “da, “di”, mentre al dativo corrisponde a “fuori da”. Quasi tutte le altre pre-

posizioni esistenti sono associabili esclusivamente al genitivo, come per esempio

naejot, che significa “di fronte a” (High Valyrian Adpositions, 2015).

Anche in latino alcune preposizioni possono essere associate a due casi (accusativo

e ablativo). In (in/verso) o sub (sotto) se associate all’accusativo esprimeranno un

moto a luogo, mentre se associate all’ablativo indicheranno uno stato in luogo

(Monticini, 1977/1978).

Dato l’utilizzo dei casi, non ci sono norme particolari che regolino la posizione delle

parole all’interno della frase sia in alto valyriano che in latino. L’unico accorgimento

sta nel porre il verbo sempre alla fine della proposizione, la quale, generalmente,

segue l’ordine di soggetto-oggetto-verbo (SOV) (Peterson, 2015). Questa

caratteristica è tipica di tutte le lingue che abbiano un sistema di casi, ma non vale

per idiomi come l’italiano che si servono di altri elementi, quali le preposizioni.

Sarebbe infatti impossibile distinguere, per esempio, un soggetto da un

complemento oggetto in quanto essi non presenterebbero alcuna differenza

formale.

Un’altra analogia che è facilmente constatabile tra le due lingue è la presenza degli

accenti. Tuttavia, in alto valyriano non è necessario porre graficamente l’accento

tonico sulle vocali che lo richiedono, mentre in latino è obbligatorio. Si tratta di una

scelta personale del glottoteta, in quanto Peterson stesso ha deciso di non dare

troppa importanza al macron, segno diacritico che indica una vocale lunga.

L’accento tonico, in alto valyriano, cade generalmente sulla penultima sillaba delle

parole; il latino, al contrario, segue diverse regole. Se la parola è composta da due

sillabe, esso cade sulla penultima, sia essa breve o lunga; nel caso in cui invece la

parola sia costituita da più di due sillabe, ci sono due possibilità. Se la penultima

sillaba è lunga, allora sarà accentata; se breve, l’accento andrà posto sulla

terzultima (Peterson, 2015; Monticini, 1977/1978).

67

Oltre a questi e molti altri aspetti comuni a livello linguistico, il latino e l’alto

valyriano presentano diverse analogie anche in altri ambiti. Per esempio, il prestigio

di entrambe le lingue era molto elevato. Nell’ottava puntata della terza stagione,

intitolata I Secondi Figli, Missandei, una traduttrice, si rivolge con queste parole a

Daenerys Targaryen: “Il tuo alto valyriano è molto buono, Vostra Grazia. Gli Dei non

potevano creare un linguaggio più bello. L’unica lingua perfetta per la poesia”.

Quest’affermazione può far pensare al prestigio che il latino ha avuto per secoli. In

Italia, in particolare, è stato necessario molto tempo prima che i poeti iniziassero a

utilizzare il volgare per scrivere le loro opere. Anche quando ormai il volgare era

diffuso, alcuni autori, come il celebre Petrarca, preferivano usare il latino, accanto al

volgare, come lingua letteraria. Petrarca aspirava alla gloria letteraria grazie alle sue

opere in latino, ma la ottenne invece per il Canzoniere, scritto in volgare ma con un

titolo latino (Rerum vulgarium fragmenta). In epoca medievale e moderna, il latino

era insegnato ai figli dei nobili e ancora oggi si studia nella maggior parte delle

scuole superiori per almeno due anni. L’alto valyriano è egualmente importante e

prestigioso, infatti viene anch’esso insegnato dai maestri nel Continente Occidentale

ai figli dei nobili. Ciò spiega il motivo per cui alcuni personaggi di alto lignaggio, come

Lord Tyrion di Casa Lannister, abbiano qualche conoscenza rudimentale della lingua

parlata fluentemente da Daenerys Targaryen.

Per quanto riguarda la forma di governo, sono presenti varie differenze. I Valyriani

non hanno avuto nessun re o imperatore e questo è il motivo per cui hanno

denominato il loro dominio Libera Fortezza. Ogni cittadino con dei possedimenti

terrieri aveva voce in capitolo in politica e le uniche figure autoritarie erano gli

Arconti, lord terrieri eletti dai loro pari. Essi avevano il compito di facilitare il

comando e la loro carica aveva una durata limitata. Normalmente erano al

comando Arconti di diverse famiglie, anche se talvolta poteva esserci in carica una

singola famiglia (García et al. 2014).

Roma, al contrario, ha cambiato forma di governo varie volte nel corso della storia.

La prima durò più di due secoli, dalla fine dell’VIII alla fine del VI secolo a. C.:

questo periodo è detto monarchico, o età regia, o arcaica. La storia parla di sette re,

di cui non si hanno notizie certe. É improbabile che siano stati solo sette e alcuni di

loro probabilmente furono figure leggendarie, ma i re rappresentano

68

simbolicamente le fasi dell’evoluzione della città e l’organizzazione dello stato. Le

strutture portanti della società erano le gentes e la familiae e la distinzione sociale

più importante era fra patrizi e plebei. Il potere sovrano era detenuto dal re, che

esercitava funzioni politiche, religiose, militari e l’imperium, cioè decideva in modo

inappellabile; tuttavia, il suo potere non era indiscusso perché era eletto ed era

affiancato dal senato. I senatori eleggevano il re e lo sostituivano a turno in caso di

sua morte o impedimento. Con la caduta dell’ultimo re, Tarquinio il Superbo, nel

509 a. C., venne istituita una repubblica dpampargrazie carattere aristocratico che

vedeva il primato del senato. I senatori erano tutti di estrazione gentilizia.

L’aristocrazia controllava le magistrature politiche, militari e religiose. L’autorità

civile e militare era affidata ai consoli che comandavano l’esercito e

amministravano la giustizia, sostituendosi alla precedente figure del re. Iniziò nel

periodo repubblicano l’espansione di Roma in Italia, a cui seguirono le conquiste

imperialistiche fuori d’Italia, mentre, in seguito a conflitti, i plebei ottenevano

importanti riforme. Roma divenne padrona di un impero immenso, che abbracciava

l’intero Mediterraneo e alcuni territori in Oriente.

Dopo un lungo periodo di crisi istituzionale, nel 27 a. C. Ottaviano Augusto ristabilì

la pace ma fu la fine della repubblica e venne instaurato il potere imperiale. La pax

romana durò due secoli e i possedimenti romani raggiunsero la massima

espansione, costituendo un grande sistema coeso e integrato (Guarracino,

Perissinotto, Grassi & Frigerio, 1B, 2002). Tra la fine del IV e l’inizio del V secolo

l’impero, ormai cristiano, attraversò una profonda crisi economica, politica e

militare. Si delineava la separazione tra Oriente e Occidente, destinata a diventare

definitiva, e le popolazioni barbariche premevano ai confini. Nel 410 i visigoti

compirono il sacco di Roma e, nel 476, avvenne il crollo dell’Impero Romano

d’Occidente. Il crollo dell’Impero Romano d’Oriente avverrà nel 1454 con la presa

di Costantinopoli a opera dei turchi Ottomani (Guarracino et al. 2A, 2002).

Un ultimo aspetto che, in parte, presenta caratteristiche simili tra la cultura

valyriana e quella romana è la religione. La Libera Fortezza, all’apice del suo potere,

era caratterizzata da una libertà di culto assoluta e non c’era nessuna religione

ufficiale di stato. Non privilegiava né proibiva alcuna fede e molti valyriani

adoravano più divinità, anche se la maggior parte non ne adorava alcuna. Alcune

69

delle città libere, come Qohor e Norvos, erano state occupate da particolari sette

religiose formatesi a Valyria; non tollerando l’estrema libertà di culto, esse decisero

di lasciare Valyria per fondare le proprie città in cui poter esercitare il proprio culto

(García et al. 2014).

I Romani avevano un modo particolare di vivere la religione. Essa era considerata

come una religione politica, che mirava all’utile, e a essa si ricorreva, con riti o

sacrifici, in modo che gli dei offrissero benefici in cambio. Le formule e i precetti

erano rispettati come se fossero leggi, in quanto la religione non era separata, come

lo è oggi, dalla politica. A differenza da Valyria, a Roma era presente una religione

di stato, anche se differenziata nel tempo nella pratica dei culti. Infatti, mentre

originariamente la religione romana si limitava al mondo rurale e a una serie di riti

dei campi, a partire al VI secolo a.C. l’influenza etrusca e, soprattutto, greca,

causarono un allargamento nelle fila delle divinità. Gli dei assunsero caratteristiche

antropomorfe e vennero fatti corrispondere a quelli greci: Giove era per i Greci

Zeus, Giunone corrispondeva a Era, Diana ad Artemide e così via.

Siccome i valyriani non avevano una religione comune, ogni culto aveva i propri

seguaci e sacerdoti. Nella religione romana, al contrario, erano presenti vari gruppi

sacerdotali, che si occupavano ognuno di compiti diversi: le Vestali, per esempio,

l’unico gruppo sacerdotale femminile, dirigevano il culto di Vesta, la dea latina del

focolare. I pontefici, invece, erano un gruppo più importante; quando si riunivano

erano diretti dal pontefice massimo che, in età monarchica, corrispondeva alla

figura del re. In età repubblicana questa carica divenne ancora più importante, In

quanto la scelta di questa figura politico-religiosa avveniva tramite elezione

(Gentile, Ronga, Rossi & Cadorna, 2014).

Un grande cambiamento nella società romana, invece, avvenne con la diffusione del

Cristianesimo, prima osteggiato con persecuzioni e repressioni, poi assunto quale

religione di Stato, nel 380, grazie all’imperatore Teodosio. Il Cristianesimo fu uno

dei fattori che determinarono importanti durature modificazioni linguistiche nella

società romana perché si rivolgeva a tutti gli strati sociali adeguando il proprio

linguaggio a ognuno di essi. Il Cristianesimo ebbe un ruolo importante nel processo

di dissoluzione del classicismo e nella nascita delle lingue romanze, ma svolgerà

anche un ruolo molto importante nella conservazione e nella trasmissione della

70

cultura classica (Gensini, 1988/1992).

Nonostante ci siano ancora molti aspetti delle due lingue che potrebbero essere

analizzati e paragonati, il terzo e ultimo capitolo è giunto al termine. Lo scopo di

questa tesi era di verificare se una lingua pianificata potesse essere considerata

una lingua a tutti gli effetti, tanto quanto una naturale. Questo scopo è stato

raggiunto perché, nonostante latino e alto valyriano non siano stati paragonati in

ogni dettaglio possibile, gli elementi analizzati sono sufficienti a dimostrare la

complessità e la verosimiglianza dell’alto valyriano. Questa lingua è stata costruita

in modo efficace e l’ascolto o la lettura di un brano non sono sufficienti di per sé a

far comprendere che si tratta di un idioma pianificato.

Questa conclusione è valida anche per l’esperanto; il fatto di essere una lingua

creata artificialmente, non lo rende riconoscibile come tale. L’unico aspetto

caratteristico è la semplicità, richiesta dalle esigenze di una Lingua Ausiliaria

Internazionale; un europeo noterà indubbiamente la vicinanza alla propria lingua,

in quanto era questo lo scopo del dottor Zamenhof. Per raggiungere tali risultati

una lingua pianificata deve essere completa e non costituita solo da pochi elementi.

Esistono alcuni tipi di lingue, dette naming languages, che sono costruite solo in

parte e vengono utilizzate per denominare luoghi, persone o oggetti. Non

possiedono regole grammaticali e non hanno una struttura vera e propria

(Henning, 1995). Con questo particolare tipo di lingue non è possibile scrivere un

testo completo o formulare un discorso, dunque non sono abbastanza complete da

risultare verosimili come l’alto valyriano o l’esperanto.

71

Conclusione

All’inizio di questo lavoro, le domande e i dubbi riguardo alle lingue inventate, o

meglio pianificate, erano molti; l’idea di creare una lingua partendo da zero

sembrava un’impresa a dir poco ardua, che solo pochi geniali studiosi potevano

riuscire a realizzare. Tuttavia, durante questo lavoro, ho studiato i procedimenti e

le tecniche utilizzati dai glottoteti, o conlanger, e mi sono avvicinata a questa

materia in modo più scientifico. Ora, pur sapendo che si tratta di un compito

estremamente difficile, so che è facilitato dalla presenza di molto materiale utile

allo scopo.

Il primo capitolo è stato fondamentale per introdurre in modo appropriato lo

studio sulle lingue pianificate e naturali. Le definizioni che ho scelto di riportare,

infatti, sono necessarie a specificare la terminologia adatta per parlare di

pianificazione linguistica.

Il successivo confronto tra lingue pianificate e lingue naturali è stato presentato

tramite l’analisi delle principali proprietà generali delle lingue. Grazie a questo

studio sono state messe in luce le analogie e le differenze tra i due tipi di codice

che, nonostante nascano e si sviluppino in modo diverso, sono risultati essere

molto simili; le lingue pianificate, infatti, condividono con le lingue naturali quasi

tutte le loro proprietà generali.

Anche la classificazione delle lingue pianificate è stata fondamentale prima di

continuare il lavoro. Tra le varie proposte la scelta è caduta su una classificazione

che distinguesse le lingue secondo il motivo della loro pianificazione, per mettere

in risalto le differenze tra le varie tipologie. Da questa classificazione è emerso che

esistono vari tipi di lingue pianificate, che possono essere create per i fini più

diversi e rispettando canoni differenti.

Da questa presa di coscienza si è sviluppato il secondo capitolo, il cui argomento

73

fondamentale è stato il processo di creazione di due lingue pianificate per scopi

diversi. Prima, tuttavia, ho ritenuto che fosse necessario presentare il processo di

nascita di una lingua naturale; per poter tentare di pianificare un idioma che risulti

verosimile, è fondamentale conoscere lo sviluppo naturale di una lingua e le

modalità in cui esso avviene. A tal proposito sono state analizzate e spiegate le

variazioni diacronica, diatopica, diafasica, diastratica e diamesica, prendendo in

considerazione le varie tipologie di mutamento linguistico che possono interessare

le lingue. Inoltre, sono state presentate le condizioni che possono favorire, o meno,

l’avvenimento del mutamento linguistico.

Passando alle lingue pianificate, innanzitutto è stato importante specificare che, UN

prescindere dalla tipologia di lingua che il glottoteta vuole creare, esse hanno in

comune la fase della glottopoiesi, mentre la fase di vita semiologica non è raggiunta

da tutte. Il procedimento, tuttavia, varia di molto se il glottoteta vuole creare una

LAI, come l’esperanto, o una lingua per la finzione letteraria, come l’alto valyriano.

L’esperanto è stato costruito secondo il principio d’internazionalità e con

l’intenzione di renderlo semplice e immediato. Peterson, al contrario, ha avuto altre

difficoltà da affrontare, la prima delle quali era la mancanza di un contesto storico-

culturale a cui far corrispondere la sua lingua. Tuttavia, il lavoro è stato soggetto a

regole meno ferree, in quanto non era destinato a facilitare la comunicazione

internazionale. Sono infatti presenti, nell’alto valyriano, diversi elementi che

caratterizzano di solito una lingua a priori nonostante esso sia considerato una

lingua a posteriori.

Lo scopo dell’ultimo capitolo è stato chiarire se una lingua pianificata per la

finzione letteraria potesse essere considerata parimenti dignitosa quanto una

lingua naturale. Per il confronto tra i due tipi di lingue sono stati scelti l’alto

valyriano e il latino alla luce delle parecchie analogie presenti tra loro.

Dapprima sono stati esaminati i più importanti mutamenti linguistici che hanno

contribuito a trasformare il latino in lingue romanze e l’alto valyriano in basso

valyriano. Lo scopo era di verificare se le due lingue avessero seguito una linea

evolutiva comune o meno e ne è risultato che i mutamenti linguistici che le hanno

riguardate sono simili. Tuttavia, il latino si è trasformato ed è stato arricchito grazie

anche all’apporto di molti vocaboli provenienti da lingue di contatto; il valyriano, al

74

contrario, ha subito più mutamenti di ordine morfologico che lessicale. Qualche

apporto è giunto dalla lingua ghiscariana, ma non significativo.

I mutamenti lievemente diversi delle due lingue rispecchiano la storia delle due

civiltà; il crollo dell’Impero Romano è avvenuto in modo non improvviso, in seguito

a una lunga crisi politica, economica, militare che lo ha portato alla disgregazione.

Le variazioni linguistiche, provenienti dalle popolazioni barbare, hanno avuto il

tempo di diffondersi gradualmente. L’impero della Libera Fortezza, invece, è stato

spazzato via da un cataclisma improvviso; di conseguenza, gli abitanti delle città

del continente orientale hanno iniziato solo a partire da quel momento a

esprimersi nella loro lingua più liberamente, poiché prima i Valyriani avevano loro

imposto il proprio idioma. Essi hanno iniziato a inserire nell’alto valyriano termini

dei loro dialetti, portando alla nascita del basso valyriano. In entrambi i casi,

comunque, se non fosse avvenuto il crollo dell’impero la lingua avrebbe

probabilmente preso una direzione differente. Sono i fatti storici, culturali e sociali

che determinano il comportamento di una lingua. Le varianti si sono potute

affermare solo perché è scomparso il centro unificatore politico, culturale e

linguistico.

Infine, il latino e l’alto valyriano sono stati paragonati fra loro nei dettagli, con

l’analisi di alcuni aspetti linguistici, come il sistema delle declinazioni e dei casi. Il

confronto ha anche interessato alcuni aspetti esterni alla lingua, ovvero la religione

e la storia, che costituiscono le caratteristiche culturali più importanti che possono

influenzare una lingua.

Il risultato finale è che non solo l’alto valyriano può essere considerato una lingua

completa ed egualmente complessa come il latino, ma per alcuni aspetti è anche

più complicato. Questa sua complessità lo pone sullo stesso livello di una lingua

naturale: non solo è composta da una serie di regole linguistiche, ma si appoggia

anche su un fondo culturale, storico e politico proprio di una comunità di parlanti

che, giorno dopo giorno, contribuiscono inconsciamente al mutamento della loro

stessa lingua.

75

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79

Appendice A

Figura 1) Classificazione delle lingue pianificate – Schema rielaborato da Aga

Magéra Difúra (Albani & Buonarroti, 1994/2011, pp. 12-13)

81

Figura 2) Mappa di Essos con le città libere e Valyria – Immagine reperita da Google

immagini e modificata da me

Figura 3) Mutamenti linguistici dall’alto valyriano al basso valyrianoA language

of thrones (Peterson & Language Creation Society, 2013)

82

Tabella 1) Il numero in alto valyriano – Tabella tradotta da The Art of Language

Invention (Peterson, 2015, P. 201)

Numero Accordanza verbo

Logica

Singolare

Uno

Singolare

Un attore

Plurale

Molti

Plurale

Attori multipli non trattati come unità

coesa

Collettivo

Tutti

Singolare

Attori multipli trattati come unità

Paucale

Pochi

Plurale

Numero ristretto di attori non trattati

come unità coesa

Tabella 2) Evoluzioni delle classi dall’alto valyriano al basso valyriano – Tabella

tradotta da A language of thrones (Peterson & Language Creation Society, 2013)

Genere

Alto valyriano

Genere

Basso valyriano

Italiano

Solare

Lunare

qablos

pēko

Terrestre

belmon

Acquatico

jēdrar

Celestiale

Terrestre

ji qablo

ji pegu

vi bilmo

vi jedror

Fegato

Oliva

Catena

Anno

Tabella 3) Declinazioni e classi dell’alto valyrianoInformazioni reperite da High

Valyrian Noun Declensions, 2016

Prima declinazione

seconda declinazione

terza declinazione

quarta declinazione

quinta declinazione

Classi

Solare

Lunare

Acquatico

Terrestre

-a

-y

-o

-e

-i

-ys

-os

-es

-is

83

-ar

-or

-ir

-en

Tabella 4) Paradigma di un sostantivo in alto valyriano e in latino – Informazioni

reperite da High Valyrian Noun Declensions, 2016 e Grammatica latina (Monticini,

1977/1978)

VALA

Singolare

Plurale

Paucale

Collettivo

HOMO

Singolare

Plurale

Nom.

Acc.

Gen.

Dat.

Loc.

Vala

Vale

Valo

Valot

Valā

Vali

Valī

Valoti

Valoti

Valoti

Strum.

Valosa

Valossi

Valun

Valuni

Valuno

Valunta

Valunna

Valussa

Valar

Valari

Valaro

Valarta

Valarra

Valarza

Comp.

Valoma

Valommi

Valumma

Valarma

Voc.

Valus

Valis

Valussa

Valarza

Nom.

Gen.

Dat.

Acc.

Voc.

Abl.

Hŏmo

Hominis

Homini

Homines

Hominum

Hominĭbus

Hominem

Homines

Hŏmo

Homine

Homines

Hominĭbus

84

SCUOLA SUPERIORE PER MEDIATORI LINGUISTICI

“ADRIANO MACAGNO”

Legalmente riconosciuta dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica

DD.DD. del 30 settembre 2005 e del 27 ottobre 2009

TESI DI DIPLOMA

DI

MEDIATORE LINGUISTICO

Equipollente ai Diplomi di Laurea rilasciati dalle Università al termine dei corsi
afferenti alla classe delle

LAUREE UNIVERSITARIE
IN
MEDIAZIONE LINGUISTICA

Constructed languages between
fantasy and reality

RELATORE
Lingua Italiana
Prof. ssa Gonnet Anny Maria

RELATORE
Lingua Inglese
Prof. ssa Daly Sabrina

CANDIDATO
Salis Sara
Matr. N. 2014/P070

ANNO ACCADEMICO 2016-2017

Index

introduzione ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..91

Capitolo 1. Constructed languages and natural languages …………………………………………………… 93

1.1 Definitions …………………………………………………………………………………………………………………………………………. 93

1.2 Constructed languages and natural languages: comparisons ……………….. 97

1.3 Constructed languages: classification …………………………………………………………………….. 102

Capitolo 2. Birth of a language ………………………………………………………………………………………………………………….. 109

2.1 The of birth and development process of a natural language ……………. 109

2.2 The creation and development process of a constructed language. 112

2.2.1 A constructed language for the real world (Esperanto) …………………………. 115

2.2.2 A constructed language for literature (High Valyrian) ……………………………. 119

2.2.3 Comparison between the two processes ……………………………………………………………… 124

Capitolo 3. High Valyrian and Latin …………………………………………………………………………………………………………127

3.1 Evolution of the two languages……………………………………………………………………………………….127

3.1.1 From Latin to Romance languages……………………………………………………………………………….129

3.1.2 From High Valyrian to Low Valyrian………………………………………………………………………….136

3.2 Analogies and differences between Latin and High Valyrian………………..143

Conclusione …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… 155

Bibliografia…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… 159

Appendix A …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… 163

89

introduzione

“Nyke Daenerys Jelmāzmo hen Targārio Lentrot, hen Valyrio Uēpo ānogār iksan.

Valyrio muño ēngos ñuhys issa“. The idea for this thesis was born from this sentence

in High Valyrian, which is told by Daenerys Targaryen, character of one of the most

famous TV series of the last years: Game of Thrones. The exiled queen expresses

herself through an invented language, which is not spoken in any part of the world;

Ancora, by listening to this sentence and many others, her language seems extremely

real, with specific sounds, grammar, vocabulary and syntax.

After studying the way in which languages arise and how social phenomena deeply

influence the linguistic ones, a question was spontaneously born: if a language

requires centuries to form and it is so depending on elements such as culture,

history and society, then how is it possible to create a language from nothing?

This thought made me curious to the point that I started to read up, finding even

more interesting information than I expected. I have discovered a nearly

completely unknown world and the more I searched, the more the results intrigued

me and created other questions, until I thought this topic could be important

enough to be discussed on the occasion of a graduation.

A questo punto, I started searching specific material in order to write a thesis and the

answer to my initial question revealed to be very articulated. In fact, Prima

explaining the process of creation of a constructed language, it will be appropriate

to highlight the terminology used in the field of invented languages.

Perciò, in the first chapter, various definitions will be proposed and the general

characteristics of languages will be presented, in order to understand if they are

shared both by natural and invented languages. Tuttavia, during the search for

material other questions formed: Per esempio, are invented languages all linked to

the literary field? To answer, a classification of the various existing invented

languages will be presented, in order to have a more complete vision on the topic.

It is in the second chapter that the answer to the initial question will be introduced,

analysing the process of creation of an invented language and differentiating it

from the process of birth of a natural one. The emphasis will be placed, In

particolare, on two artificial languages: Esperanto, an International Auxiliary

Lingua (IAL), and High Valyrian. As it will be possible to read during the chapter,

these two languages were born to fulfil two different purposes. The first one,

created by Doctor Zamenhof, has the aim of working as a bridge between speakers

of various European languages, offering them the possibility of communicating

through a rather simple and immediate language, without using, for example,

English. The second one, created by David J. Peterson, was born instead with the

aim of giving voice to an imaginary population, without making it evident that it is

an invented language. I chose to focus only on these two languages because it is

possible to say that they are the opposite, both for their aim and for their method

of creation. I think that, per questo motivo, they offer very interesting points to work

su.

In the third and last chapter, there will be the search for the answer to one more

question: can an artificial language be considered as worthy as a natural one? Is

there an unnatural simplicity, due to the fact that the language was created instead

of developing naturally? With regards to this, two languages will be compared: UN

natural language among the most important in the world, latino, and the recent

language that gave voice to Daenerys Targaryen, High Valyrian. I will compare

grammar, phonology and morphology, but even all the external elements that

contribute to influencing a language, such as the culture or history of the people. IO

chose to contrast High Valyrian with Latin first because the two languages were

compared several times in the past; Inoltre, after some research, I found

many common points between them, so I decided to analyse them more accurately

to gain better understanding of them. Finalmente, I think that if High Valyrian results

similar to Latin, one of the most important and influent languages in the world,

then this will certainly place it at the same level as any other natural language.

92

CHAPTER 1

Constructed languages and natural languages

1.1 Definitions

Languages are totalities, inventories of words and usage rules typical of single

historical communities living in certain periords. This is the definition of language

that Tullio De Mauro gives in the Presentazione of the work Elementi di storia

linguistica italiana, by Stefano Gensini (1982, P. 8). The author obviously talks

about languages spoken on Earth, but this could make the definition imprecise; In

fatto, even Elvish of John Ronald Reuel Tolkien could be considered as a real

lingua. The Elves, in the fantasy world created by the author, are in all respects a

historical community living in a determined period, expressing itself through its

own linguistic signs.

Tolkien’s Elvish is perhaps one of the most known invented languages in the world,

but there are a lot more that could be considered, as the Kēlen language, created by

Sylvia Sotomayor for literary purposes in 1980; it is a language characterized by

the absence of verbs and spoken by Kēleni, a humanoid population of planet

Tērjemar. Another example is Ayeri, a constructed language project of Carsten

Becker who in 2003 started dedicating to the codification of an invented language

for merely recreational purposes. Even Klingon, invented by Mark Okrand for Star

Trek, is a suitable example and there are a lot more.

Another very recent invented language is High Valyrian, constructed together with

the Dothraki by the linguist David J. Peterson for the TV series Game of Thrones,

based on the American writer George R. R. Martin’s books A Song of Ice and Fire.

Like Elvish, High Valyrian is a language that does not belong to our world but it is

spoken and written in Essos, the Eastern Continent in which part of the story

shown in the TV series takes place. The differences between the languages

93

mentioned before and those spoken on Earth, called natural languages, are various;

what mainly makes them different is clearly their origin, because it determines

their future development. Constructed languages are the result of a conscious act

of creation, therefore they share similar characteristics; tuttavia, non lo sono

subjected to continuous variations due to the activity of speakers, as it happens to

natural languages. Questi, Infatti, undergo various evolutions during the centuries,

until they become as we know them nowadays. Perciò, we call a natural

language any language existing in the world that was spontaneously born and

underwent phases of evolution because it is subject to variations and mutations,

namely any spoken language (David J. Peterson, 2015). Silvia Luraghi (2006)

specifies furthermore that the language must have developed in a community of

speakers, have been inherited between generations and then be learnt as mother

tongue, of first socialisation, by new speakers.

Returning to the definition of language, in order to consider Elvish, High Valyrian

or Dothraki as languages, it is possible to consider them in a broad sense as a

complex system of communication. The human verbal communication occurs

correctly when the sender, who expresses the linguistic message, and the recipient,

who interprets it, share a code thanks to what it is possible to give a meaning to

reality.

Perciò, a code is the whole of correspondences fixed by common consent

between something (a whole showing) and something else (a whole showed), Quale

provides the rules to interpret the signs. All the systems of communication are codes

and the linguistic signs form the code language. (Berruto & Cerruti, 2011, P. 7).

A specification is necessary: There are various types of code, with characteristics

that make them extremely different. Per esempio, a language like Italian is different

from the mathematical language, even though they are both codes; Italian has in

fatto, like every language, specific properties as the semantic omnipotence, IL

plurifunctionality and the reflexivity. The semantic omnipotence refers to the

ability of the language of expressing any content; the plurifuncionality is the

possibility of fulfilling several different functions; the reflexivity, or metalinguistic

funzione, is the ability of the language of discuss and describe itself (Romano &

Miletto, 2011). Inoltre, the linguistic code is alive and in a continuous

94

evolution and it varies in a diachronic dimension through the speakers, who can

modify its rules. The rules of the mathematical code, d'altra parte, cannot be

modified. The use of a linguistic code is creative, the use of the mathematical code

cannot be; the speaker is the one who guarantees the vitality of a linguistic code

and contributes either to create and keep the variations or to sanction its

abandonment. The one who uses the mathematical code shares its rules, without

the possibility of modifying them.

Another term that can be used to define languages is “real languages” (Peterson,

2015), which includes both those naturals and those constructed, because both

exist and were born or were created in our world. Tuttavia, in order not to

focus the attention only on the real or not real existence of a language, it is

necessary to underline that history and evolution of a naturally born language,

which has been spoken over centuries, are different from those of a language that

has been artificially created. Being High Valyrian just a fiction, it has never

undergone the various mutations as it usually happens to natural languages; these

are subject to several changes in time (diachronic mutation), so that, in the

evolution process, new languages may arise (cioè. the passage from Latin to

Romance languages).

Perciò, in order to define precisely a language as High Valyrian, marking its

difference from the languages of our world, it is necessary to choose the best way,

among the various proposals we can find in literature.

For this reason, the three definitions that seem to be more interesting are the

following:

 Constructed language: complete linguistic system, defined in writing by a

linguistic planner, called conlanger, for various purposes, as Gobbo defines it

(2009, p.70);

 Artificial language: language intentionally constructed through a series of

conventions both in rules and in vocabulary, as it is defined in Aga Magéra Difúra

(Albani & Buonarroti, 2011, P. 46);

 Imaginary language: system of signs, often not codified, that belong to a fictional

community or people, not elaborated for practical purposes, but only for

recreational-expressive ones. (Albani & Buonarroti, 2011, P. 194).

95

Each one of these definitions is important, because it gives different types of

informazioni; the first one specifies the concept of constructed language and it

introduces the figure of the conlanger, different from the linguist who studies

languages from a scientific point of view, whereas a conlanger creates them. UN

conlanger does not necessarily work in linguistics; in fact, some International

Auxiliary Languages (that will be analysed later) were created by conlangers who

were doctors, engineers, mathematics or priests. The definition specifies,

Inoltre, that a language can be created for different purposes, which can be

philosophic, recreational, religioso, literary, linguistic or scientific; for what

concerns High Valyrian, the purpose is literary.

The second definition gives the possibility of distinguishing artificial languages and

natural languages because these, as specified before, are the result of an evolution;

pertanto, there is not someone who consciously establishes conventions, whereas

for artificial languages it is the creator’s, or creators’, duty to consciously elaborate

these conventions.

Finalmente, the third one explains that an imaginary language, exclusively created for a

recreational purpose, belongs to an imaginary community as well.

Among the three denominations, even though they are all suitable, that of

“constructed” is the best one because it describes in a complete way every

fundamental characteristic of this type of languages. Per questo motivo, it is the one

that will be used in this treatment, making the same choice as Federico Gobbo

(2009, P. 70) who claims that this is the best terminology to use, even though there

are various denominations.

Until now, the attention has been put only on constructed languages belonging to

non existent communities, whose creators have followed a literary purpose.

Tuttavia, according to the definition of constructed language, it is possible that

a conlanger has a linguistic purpose. In fact, there are constructed languages

created to be spoken and written in this world by existent communities, called

International Auxiliary Languages (IAL), namely languages created to ease written

and oral relations between people of different mother tongues (Albani &

Buonarroti, 2011, P- 49).

96

An IAL must fulfil certain requirements: Primo, it must not be an already existing

national language, because this way the speakers of this language would be helped.

Anzi, it must be as neutral as possible, as Umberto Eco affirms (1993),

referring to the IAL projects arisen at the beginning of the 20th century: “[…]

[F]ormed on the model of natural ones, but which might seem natural to all its

users” (P. 318). It must not be a dead language as Latin , even though there was an

attempt, which failed, of restoring it with some modifications. This project is called

Latino sine Flexione and the mathematician Giuseppe Peano accomplished it in

1903; he proposed it as an exclusively written language for the scientific

community, as Federico Gobbo says (2009). It was, as Umberto Eco reminds

(1993), a simplified Latin, without any declension, so “As with other international

lingue, Latino sine Flexione depended less upon its structural merits than on

establishing a consensus in its favour. Failing to achieve this, it became another

historical curiosity” (pp. 323-324). Another requirement of an IAL is that of being

useful in habitual relationships of social life, in business exchanges and in scientific

and philosophical relations (Albani & Buonarroti, 2011, P. 49).

Finalmente, it must Be easy to learn for every person with an average education and in

particular for European people (P. 49).

This requirement caused various issues for several IAL projects that were

proposed; it is difficult to create an easy-learning language for everyone without

helping a part of the speakers and without making choices that risk destroying it.

An example is what happened to Volapük, created by Johann Martin Schleyer from

Germania. He took English as model on which to base his constructed language;

tuttavia, in order to make it easier for Chinese people, he decided to remove

“r” because for them this phoneme would have been very hard to pronounce.

Tuttavia, in this way the language became too hard to be understood and learnt

even for Europeans, so the project did not develop anymore(Gobbo, 2009).

1.2 Constructed languages and natural languages: comparisons

After making clarity on the most appropriate terminology to use, it is good trying

to understand if a constructed language can be considered at the same level of a

natural one; to do this, it is necessary to clarify if they share any common feature.

97

A first difference has been found earlier: the origin. While natural languages are the

result of a process of evolution that lasts for centuries, the constructed ones arise

from an act of creation of their inventor. Tuttavia, the research of common features

between the two types of languages in this part of the dissertation will be more

detailed; in particolare, the general properties of languages, namely the attributes

that every language has, will be examined.

Antonio Romano (2010) explains what these general properties are; tuttavia,

he first gives a brief introduction where he explains that any linguistic system

considered will have some basic components that can be found in all the others:

phonology, morphology, syntax and vocabulary. It is important to underline that he

only considers natural languages and not the constructed ones: Per questo motivo, Esso

will be my duty to understand if what he writes is valid also for the last ones.

The first property described by the author is the linguistic plurifunctionality (already

mentioned before), which consists in the possibility of the language to be used to talk

about everything, even about itself (metalinguistic property). For what concerns

natural languages, there is a confirmation of the existence of this property every day,

because the speakers talk about various topics and, in qualche modo, they always manage

to express what they want to tell. It is important to notice that some languages are

more precise than others: Per esempio, in English the verb “to look up” does not have

an exact equivalent in Italian. Tuttavia, the sentence “to briefly visit” could express

correctly the sense of the meaning. It is possible to find differences of this type in other

cases too, often due to the surrounding environment and the people’s culture.

Considering two Italian dialects, Piedmontese and Sicilian, will emerge various

linguistic differences tied to the environment. Piedmont is situated in the extreme

north of Italy and Sicily at the extreme south, they are at far latitudes, therefore there

are different atmospheric phenomena. In Piedmontese there are various ways to

denote snow: Fioca, for example, is a word that indicates snow in general, Mentre

patarass refers in particular to the typical snow of the beginning of March. In Sicilian,

we do not find such a specific difference of words, but it will be easier to find several

words to denote the sea.

For what concerns constructed languages, they are as well characterised by linguistic

plurifunctionality, whatever is the aim of their creation. If an IAL did not have this

98

proprietà, it would be incomplete, so it would not be useful to help the international

communication. Considering constructed languages for imaginary worlds, such as

High Valyrian, it will be necessary to write more. Being constructed for non existent

people who live in fictional places and with an fictional culture, these languages could

seem, at first sight, incomplete; in Dothraki, Per esempio, the word “thanks” is missing,

but that does not mean, that it is really incomplete. In Sicilian, there is not a term that

indicates “the typical snow of March”, but this dialect is considered complete anyway

because in Sicily this word is not necessary. Even Dothraki does not lack of

fundamental words for the community to express itself, because those they have are

enough for the communication among speakers. In the case of the difference written

before between Piedmontese and Sicilian, we are in a situation tied to the

environment and to the fact that regional Italian dialects are different, nonostante

they are all romance (neo-Latin) lingue. This diversity is due to the history of

Italian linguistic: It has produced several varieties of speaking, the so-called Italian

Babel, caused by social, political and cultural facts of the peninsula, where divisions

and removals marked reality and cultures, connected by Latin tradition (Gensini,

1982). Dialects are languages spoken at a local level by communities of speakers that,

a part from regional differences, share the same linguistic code, that of standard Italian

(Gensini, 1982). On the other hand, for what concerns the difference between

Dothraki and High Valyrian, they are two different codes spoken by two different

communities who live in the same continent and period of time, but who are made of

two different societies characterised by different cultures. In High Valyrian, per

example, there is a term to say “thank you” (“kirimvose”). This language was created

for the same fantasy world of Dothraki speakers, with the difference that the people of

Valyria have a cultural level extremely high, differently from the Lords of the Horses

(another name to indicate the Dothraki people), because their culture goes entirely

around these animals. This reflects on the language too; Per esempio, to translate “I

have already been here” the verb dothralat will be used, that means “to ride”, and not

“to be”, so the sentence literally translated will be “Ihave already ridden here” (anha

ray dothra jinne hatif ajjin). The lack of linguistic expressions of courtesy in Dothraki is

evidently due to the fact that nor courtesies nor thanks are provided for by their harsh

società.

99

Another property of languages is universality: As Romano (2010) scrive, it means

that it is not possible to find a human group, however small or isolated, that does

not use a system of verbal communication (P. 27). The author talks about human

groups so, even though he only refers to humans living on Earth, his explanation

can be perfectly adapted to whatever human being, wherever living. Valyrians are

an imaginary people, but in any case, they are human beings so this implies that

they use an oral system of verbal communication, as the existence of a certain

language implies that it is a form of expression of a folk. Infatti, a language would

not have any sense of existing if a people or a community, even imaginary, did not

use it.

If a writer wanted to invent a science fiction story set in the space, with aliens as

protagonists, he could take advantage from the fact that they are not humans;

pertanto, they could have a different system of communication. Per esempio, Esso

would be plausible that their interactions happen at a merely mental level. At this

point, any oral linguistic system would be useless, because the mind would be

enough for the communication, something that cannot happen with humans, Chi

need a linguistic code that can be shared in order to express their thoughts.

Talking about universality, the author specifies that the system of communication

used by human groups to express themselves is oral: Why not written? The answer

takes to the third property of languages, namely the priority of the speech; Infatti,

while every human uses the oral communication, this is not true for the written

uno. It is possible to demonstrate the truthfulness of this statement even just

thinking about history. When the writing system was created, humans had been

existing since thousands of years, but this does not mean that before writing they

were not able to communicate; they simply used an exclusively oral or gestural

system to interact.

In questo caso, for what concerns constructed languages, there is a difference because

they do the exact contrary: Primo, the conlanger writes the structure of the language

and only later it will be able to give voice to a community.

Mentioning that a language can have both an oral version and a written one,

another property has been identified: medium-transferability, namely the

possibility of transposing the verbal production of every linguistic system with

100

written codes and vice versa. The rules to respect to do this operation vary from a

language to another: In Italian, Per esempio, a sound corresponds to every letter. COME

G. Berruto and M. Cerruti (2011) reclamo, some systems of writing, as the Italian one,

are based on the phonemic inventory of that language and the Italian orthography

faithfully reproduces phonological units. Tuttavia, in some cases there is not a

biunivocal relation between sounds and graphemes (P. 54).

Perciò, it happens that there are some sounds without any graphic

rappresentazione (examples: /e/~ /Ɛ/ , /o/~ /ͻ/) and the same grapheme is used to

represent different phonemes (per esempio. “accétta” [aʹtː⨛etːa]

~ “accètta”[aʹtː⨛Ɛtːa]).

Sometimes combinations of graphemes are needed to represent phonemic

oppositions as, Per esempio, “ch” and “gh” before “i” and “e” (“china” [ʹkiːna] ~

“Cina” [ʹt∫iːna]), or different graphemes represent the same sound as “c” caro,

[ʹkaːro] and “q”, quadro [ʹkwaːdro]. Even in Russian, for example, a sound

corresponds to every letter. On the other hand, this is not true for English or

francese, which have a spelling rather different from the pronunciation, so sounds

correspond to sequences of letters and letters do not always have phonemic

correspondences. Conseguentemente, for these languages, the rules to follow in order to

pronounce correctly the words are rather difficult.

In constructed languages this property is taken for granted because, as already

explained, for these there is a priority of the written over the speech and not the

contrary, so obviously once written the language it will be possible to start

speaking it.

Another characteristic explained by Antonio Romano (2010) is displacement;

thanks to this property, it is possible to communicate with other human beings

even about referents that are not present in the physical space where the

conversation is taking place or that happen in a time chronologically distant from

the conversational moment. For talking about a tree, we are not compelled to

indicate one in order to make our interlocutors understand what we are referring

A, because they know that the word “tree” refers to something precise and, only

hearing it, in their mind their idea of tree will form. If this mechanism does not

start, it means that the interlocutors do not know the meaning of the word; it will

be enough to explain them what it refers to or to provide them with the translation

101

in a language they know so that the concept will be clear. Ovviamente, all this is

possible even with constructed languages: The only necessary condition is to know

what to think about at the moment we listen to a certain term. A questo punto, è

worth to mention briefly an important glottologist who revolutionised linguistics:

Ferdinand de Saussure. It is important to mention him in this moment because, COME

Berruto and Cerruti (2011) remind, he provides us with the principles of new

linguistics, called general, thanks to the Cours de linguistique générale; it is a

posthumous work where his students of the University of Geneva gathered, In

1916, his lessons. Starting from these principles, it is possible to highlight a

distinction that will better clarify the linguistic property of displacement.

As Romano and Miletto (2010) specify, Saussure claims that linguistic signs

(namely the elements that two interlocutors exchange during a conversation) Avere

two faces: the signifier and the signified. The first one is the most material one, IL

support of the message, and it could be vocal (made of sounds that interlocutors

deliver), or alphabetic (based on graphs and graphemes). The second one is

immaterial and refers to the concept that the word wants to transmit. It is precisely

thanks to the latter that the displacement is possible because words, through their

physical aspect (the signifier) refer to a certain concept (the signified), so they can

be understood even if the interlocutor does not have the indicated referent nearby

or in view.

Finalmente, another important property of languages is the cultural transmissibility: COME

Berruto and Cerruti (2010) reclamo, it simply consists in the ability of human

communities of transmitting as a tradition their own language to the future

generazioni. Di nuovo, this is applicable to “human communities”, making it valid even

for constructed languages because, although in a fictional world, they are spoken

by human beings as well as natural languages.

1.3 Constructed languages: classification

Until now, two types of constructed languages have been analysed: Those created

for literary purposes and IALs, invented instead with the aim of easing

international conversations and universal dialogue, as Berruto and Cerruti (2011)

remind. Tuttavia, there are even other reasons why these languages are

102

planned, according to which they acquire different features. Perciò, to order the

ideas, it is necessary to categorise the various types of constructed language.

There are several ways to do this, each one giving the possibility of concentrating

more on a particular aspect: Adopting, Per esempio, a classification in chronological

order, there will be more attention on the various historical contexts in which some

given languages have developed and on their evolution through time. Un altro

possible classification considers languages according to the aim that they were

created for; being the type of categorisation that offers a more complete vision on

the various typologies of languages, è, così, the one presented and analysed in

this dissertation.

It is necessary a premise in order to explain the difference among the so-called a

priori, a posteriori and mixed languages (Gobbo, 2009; Albani & Buonarroti, 2011).

A priori language is a completely independent language, or rather which is

created without taking those naturals as a starting point;

A posteriori language is exactly the opposite, namely it is a language that is

constructed being based on phonology, grammar, syntax or other features of a

natural language;

A mixed language is a constructed language obtained partly being based on a

natural one, partly creating it from nothing.

Clarified these three differences, the following scheme, elaborated from the model

in Aga Magéra Difúra (Albani & Buonarroti, 2011, pp. 12-13) and its analysis, can

be useful to exemplify the classification of constructed languages.

When studying a constructed language, one of its first aspects to consider is the

reason which it was created for, because it will determine, together with other

factors, the final result. Perciò, here there are the sacred and non sacred

lingue. As Albani and Buonarroti (2011) specify, the first ones allow the

communication with the divine, whereas the others are a group of languages that

includes on one hand the projects for social communication, whereas on the other

hand the experiments more or less artistic created only for a recreational purpose

(p.8).

103

Figura 1: Classification of constructed languages– Schema re-elaborated from Aga Magéra Difúra

(Albani & Buonarroti, 1994/2011, pp. 12-13)

Briefly mentioning the first ones, which shall not be discussed anymore, they are

divided in structured, as Balaibalan, and not structured, as glossolalia. Balaibalan is

a constructed language created in the Islamic mystical environment in the 15th

century, probably by an Arab sheik. This language is considered complete, Perché

it has its own grammar, syntax and glossary, whose words are mostly of Persian

and Turkish origin. Alessandro Bausani considers as the first real invented

language in the educated world (Bausani, 1954; Bausani, 1974, pp. 89 – 97, In

Albani & Buonarroti, 2011, p.55).

Glossolalia are instead pseudo-languages simply invented matching senseless

parole; in sacred and religious environment, as Albani and Buonarroti (2011)

104

remind, are considered as glossolalia the ways of talking of prophets because they

do not personally choose the words, but they are guided in this by the Holy Spirit

and they do not understand what they say. For Christianity, glossolalia is a gift tfor

the believer has the possibility of speaking a language he does not know. Examples

of glossolalia are prayers of Pentecostalism, or past missionaries, or mediums in a

trance status.

D'altra parte, non sacred languages can be created for a recreational or social

communication purpose; given that there are several examples of constructed

languages for both these categories: A selection has been done, analysing only

those considered most important.

Among the languages created for the purpose of social communication, ci sono

hybrid languages (for example pidgins), cryptographies, abbreviated languages

(stenography), logic-mathematical languages and IALs, already mentioned before.

The IALs can be defined a priori, a posteriori or mixed. Among those a priori, Là

are philosophical languages, namely systems of conventional signs that have the

aim of eliminating ambiguities and misunderstandings produced by natural

lingue. Per questo motivo, they are often associated to the term “perfect language”

as Umberto Eco (1993) reminds: “[…] The dream of the perfect language refused to

die” (P. 293).

Changing category, there are a posteriori languages: A much known example is

Esperanto, language created by Lejzer Ludovik Zamenhof at the end of 19th century.

This famous IAL project is based on Romance, Germanic and Slavic languages, COSÌ

this makes it an a posteriori language, and it had a lot of success. Given that this

language will be analysed more specifically later, the last type of IAL will be

presented here: mixed languages, as Volapük. This one as well is a project of

international language and it was born approximately in concomitance with

Esperanto, but it does not share its success because it was too difficult to

understand and it was abandoned for this. It is considered a mixed system because

it is based on English, Grerman and Latin-Romance languages, but it also has a

typical feature of a priori languages, namely the choice of its creator, Johann Martin

Schleyer, of eliminating “r” (cfr. cap. 1).

Afterwards, there are logic-mathematical languages (or programming languages),

105

as well created for the aim of social communication. They are a whole of characters

that form words, expressions, sentences and larger aggregates (Albani &

Buonarroti, 2011, P. 340) used in information technology. These particular

languages are characterised by the absence of ambiguity and the possibility of

being performed and they have a precise and severe syntax. Some examples are the

COBOL (Common Business Oriented Language), code created in 1959 with a

grammar very close to the English natural language, because it was specifically

thought for administrative and commercial applications, or the more recent Java,

arisen in 1995 and more distant from English even though this language is still at

its basis.

Poi, we can find abbreviated languages, namely systems of signs that act as a

linguistic surrogate of natural languages. A much common example are the

acronyms or initials as etc., prof., or UNESCO, but even stenography, a fast and

synthetic writing that uses signs and abbreviations to formulate words, is part of

this category. The invention of this code is conferred to Marco Tullio Tirone, Chi

used a similar system to note in a rapid way the orations of his patron Marco Tullio

Cicerone. Someway similar to stenography, there is the cryptography, namely the

secret writing, obviously used to produce a message comprehensible only to those

who know the used code (Albani & Buonarroti, 2011).

The last part to examine for what concerns languages created with the aim of social

communication is that of hybrid languages: They are the result of a mixture of

various languages. The most common example are pidgins or creole languages,

which were born during the triangular commerce and slave trade. They are the

result of the contact between two or more different languages as the slaves’

lingue, natives’ languages and a colonial language as Spanish, Portuguese,

francese, Dutch or English; the colonial language is considered “lexifier” for its

strong influence on the new language that is arising. The main difference between

pidgin and creole language is that the latter derives from the first; they both

originate from the encounter of various languages, but when pidgin starts to be

spoken by natives of new generations and the strongly simplified grammar evolves

towards more complex forms, it will be possible to call it creole. Tuttavia,

despite this evolution, the language will continue to be very simple. The isles of

106

Cape Verde, Haiti, the Antilles or the isles Mauritius and La Réunion are some

places where nowadays varieties of creole are spoken, as specify Albano and

Buonarroti (2011).

Finalmente, we can find non sacred languages created for an expressive or recreational

purpose: The most common are artistic-literary ones, which develop not just in

letteratura, but even in cinema, theatre, music or in comic strips. Solitamente, they are

languages created for fantasy or science fiction genres, because they give voice to

aliens or communities who live in imaginary places. Two examples, already

mentioned, are Klingon and High Valyrian: Both created for the cinema