Lingue pianificate tra fantasia e realtà
Autore: Sara Salis
Data della SM: 09-01-2017
Data FL: 12-01-2017
Numero FL: Florida-00004B-00
Citazione: Salis, Sara. 2017. “Lingue pianificate tra fantasia
e realtà.” Florida-00004B-00, Fiat Lingua,
2017.
Diritto d'autore: © 2017 Sara Salis. This work is licensed under
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SCUOLA SUPERIORE PER MEDIATORI LINGUISTICI
“ADRIANO MACAGNO”
Legalmente riconosciuta dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica
DD.DD. del 30 settembre 2005 e del 27 ottobre 2009
TESI DI DIPLOMA
DI
MEDIATORE LINGUISTICO
Equipollente ai Diplomi di Laurea rilasciati dalle Università al termine dei corsi
afferenti alla classe delle
LAUREE UNIVERSITARIE
IN
MEDIAZIONE LINGUISTICA
Lingue pianificate tra fantasia e realtà
RELATORE
Lingua Italiana
Prof. ssa Gonnet Anny Maria
RELATORE
Lingua Inglese
Prof. ssa Daly Sabrina
CANDIDATO
Salis Sara
Matr. N. 2014/P070
ANNO ACCADEMICO 2016-2017
Ringraziamenti
Ringrazio innanzitutto i miei genitori, che mi hanno sempre sostenuta e mi hanno
dato la possibilità di frequentare questa università.
Ringrazio tutti coloro che hanno creduto in me, in particolar modo la mia relatrice,
la professoressa Anny Gonnet, che fin dal primo giorno si è impegnata per rendere
questa tesi un progetto di cui vado molto fiera.
Ringrazio Guida, che ha gentilmente accettato di leggere la mia traduzione in
inglese, insieme alla professoressa Daly.
Ringrazio le amiche conosciute durante questo percorso, che hanno condiviso con
me gioie e dolori dell’università, sessione dopo sessione. In particolare, un grazie a
Jessica che si è rivelata un’amica preziosa, sempre presente e pronta a sostenermi
in tutto.
Un ringraziamento speciale va infine a Emanuele, per essere stato sempre
presente, per avermi spronata durante il cammino e per avermi sostenuta nei
momenti più difficili.
Indice
Introduzione……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………7
Capitolo 1. Lingue pianificate e lingue naturali …………………………………………………………………………….. 11
1.1 Definizioni ………………………………………………………………………………………………………………………………………….. 11
1.2 Lingue pianificate e lingue naturali: confronti ……………………………………………………..15
1.3 Lingue pianificate: classificazione …………………………………………………………………………………. 21
Capitolo 2. Nascita di una lingua …………………………………………………………………………………………………………………. 27
2.1 Processo di nascita e sviluppo di una lingua naturale …………………………………. 27
2.2 Processo di creazione e sviluppo di una lingua pianificata ……………………… 31
2.2.1 Una lingua pianificata per il mondo reale (esperanto) ……………………………….. 33
2.2.2 Una lingua pianificata per la finzione letteraria (alto valyriano)…………. 37
2.2.3 Confronto tra i due processi ……………………………………………………………………………………………….. 42
Capitolo 3. L’alto valyriano e il latino ………………………………………………………………………………………………………. 45
3.1 Evoluzione delle due lingue ………………………………………………………………………………………………… 45
3.1.1 Dal latino alle lingue romanze ………………………………………………………………………………………….. 47
3.1.2. Dall’alto valyriano al basso valyriano …………………………………………………………………………. 55
3.2 Analogie e differenze tra latino e alto valyriano ……………………………………………….. 61
Conclusione ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. 73
Bibliografia ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. 77
Appendice A ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. 81
Introduzione
“Nyke Daenerys Jelmāzmo hen Targārio Lentrot, hen Valyrio Uēpo ānogār iksan.
Valyrio muño ēngos ñuhys issa“. L’idea per questa tesi è scaturita da questa frase in
alto valyriano pronunciata da Daenerys Targaryen, personaggio di una delle più
famose serie televisive degli ultimi anni: Il Trono di Spade. La regina esiliata si
esprime in una lingua inventata, che non viene parlata in nessuna parte del mondo;
eppure,
ascoltando questa e molte altre frasi,
il suo sembra un idioma
estremamente reale, con suoni, grammatica, vocabolario e sintassi specifici.
Dopo aver studiato il modo in cui nascono le lingue e come i fenomeni sociali
influenzino profondamente i fenomeni linguistici, una domanda è sorta spontanea:
se una lingua richiede secoli per formarsi ed è così dipendente da elementi come la
cultura, la storia e la società, com’è possibile creare una lingua dal nulla?
Questo pensiero mi ha incuriosita a tal punto che ho iniziato a documentarmi,
trovando informazioni ancora più interessanti di quanto pensassi. Ho scoperto un
mondo quasi totalmente sconosciuto e più facevo ricerche, più i risultati mi
incuriosivano e creavano altre domande, finché ho ritenuto che potesse essere un
discorso abbastanza importante da poter essere trattato in sede di esame di laurea.
Ho iniziato a questo punto la ricerca di materiale specifico per poter scrivere una
tesi e la risposta alla mia domanda iniziale si è rivelata molto articolata. Infatti,
prima di procedere spiegando il processo di creazione di una lingua pianificata,
sarà opportuno fare chiarezza riguardo alla terminologia corretta da utilizzare
nell’ambito delle lingue inventate.
Nel primo capitolo saranno proposte quindi varie definizioni e verranno presentate
le caratteristiche generali delle lingue, per capire se esse siano condivise sia dalle
lingue naturali sia da quelle inventate. Durante la ricerca di materiale, tuttavia,
sono sorte altre domande: per esempio, le lingue inventate sono tutte relegate
all’ambito letterario? Per poter rispondere, sarà riportata una classificazione delle
varie lingue inventate esistenti, in modo da avere una visione più completa
sull’argomento.
È nel secondo capitolo che sarà presentata la risposta alla domanda iniziale,
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passando all’analisi del processo di creazione di una lingua inventata e
differenziandolo dal processo di nascita di una naturale. L’enfasi sarà posta, In
particolare, su due lingue artificiali: l’esperanto, una Lingua Ausiliaria
Internazionale (LAI), e l’alto valyriano. Come si avrà modo di leggere nel corso del
capitolo, questi due idiomi sono nati per raggiungere due scopi diversi. Il primo,
creato dal dottor Zamenhof, ha come obiettivo quello di fungere da ponte tra
parlanti di varie lingue europee; questo offre loro la possibilità di comunicare in
una lingua piuttosto semplice e immediata senza dover ricorrere, per esempio,
all’inglese. Il secondo, creato da David J. Peterson, è invece nato con lo scopo di
dare voce a una popolazione immaginaria, senza che si noti, tuttavia, che si tratta di
una lingua inventata. Ho scelto di concentrarmi solo su queste due lingue perché si
può dire che siano una l’opposto dell’altra, sia per lo scopo sia per il metodo di
creazione. Ritengo che, per questo motivo, esse offrano spunti molto interessanti
su cui lavorare.
Nel terzo e ultimo capitolo, si cercherà infine la risposta a un’ulteriore domanda:
una lingua artificiale può essere considerata parimenti dignitosa quanto una
naturale? Si nota una certa semplicità innaturale, dovuta al fatto che quella data
lingua è stata creata anziché essersi sviluppata naturalmente? A tal proposito
verranno confrontate tra loro una lingua naturale tra le più importanti al mondo, il
latino, e la recente lingua che ha dato voce a Daenerys Targaryen, l’alto valyriano.
Non solo saranno confrontate la grammatica, la fonologia e la morfologia, mamma
saranno presi in considerazione anche tutti gli elementi esterni che concorrono a
influenzare una lingua, come la cultura o la storia del popolo. Ho scelto di
confrontare il valyriano con il latino innanzitutto perché le due lingue sono state
messe a confronto più volte nel passato; inoltre, dopo qualche ricerca, ho trovato
parecchi punti in comune tra le due tanto da decidere di analizzarli più
accuratamente per verificare la loro veridicità. Infine, ritengo che se il valyriano
risulterà simile al latino, una delle lingue più importanti e influenti al mondo, allora
questo lo collocherà indubbiamente sul medesimo piano rispetto a una qualunque
lingua naturale. passando all’analisi del processo di creazione di una lingua
inventata e differenziandolo dal processo di nascita di una naturale. L’enfasi sarà
posta, in particolare, su due lingue artificiali: l’esperanto, una Lingua Ausiliaria
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Internazionale (LAI), e l’alto valyriano. Come si avrà modo di leggere nel corso del
capitolo, questi due idiomi sono nati per raggiungere due scopi diversi. Il primo,
creato dal dottor Zamenhof, ha come obiettivo quello di fungere da ponte tra
parlanti di varie lingue europee; questo offre loro la possibilità di comunicare in
una lingua piuttosto semplice e immediata senza dover ricorrere, per esempio,
all’inglese. Il secondo, creato da David J. Peterson, è invece nato con lo scopo di
dare voce a una popolazione immaginaria, senza che si noti, tuttavia, che si tratta di
una lingua inventata. Ho scelto di concentrarmi solo su queste due lingue perché si
può dire che siano una l’opposto dell’altra, sia per lo scopo sia per il metodo di
creazione. Ritengo che, per questo motivo, esse offrano spunti molto interessanti
su cui lavorare.
Nel terzo e ultimo capitolo, si cercherà infine la risposta a un’ulteriore domanda:
una lingua artificiale può essere considerata parimenti dignitosa quanto una
naturale? Si nota una certa semplicità innaturale, dovuta al fatto che quella data
lingua è stata creata anziché essersi sviluppata naturalmente? A tal proposito
verranno confrontate tra loro una lingua naturale tra le più importanti al mondo, il
latino, e la recente lingua che ha dato voce a Daenerys Targaryen, l’alto valyriano.
Non solo saranno confrontate la grammatica, la fonologia e la morfologia, mamma
saranno presi in considerazione anche tutti gli elementi esterni che concorrono a
influenzare una lingua, come la cultura o la storia del popolo. Ho scelto di
confrontare il valyriano con il latino innanzitutto perché le due lingue sono state
messe a confronto più volte nel passato; inoltre, dopo qualche ricerca, ho trovato
parecchi punti in comune tra le due tanto da decidere di analizzarli più
accuratamente per verificare la loro veridicità. Infine, ritengo che se il valyriano
risulterà simile al latino, una delle lingue più importanti e influenti al mondo, allora
questo lo collocherà indubbiamente sul medesimo piano rispetto a una qualunque
lingua naturale.
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CAPITOLO 1
Lingue pianificate e lingue naturali
1.1 Definizioni
“Le lingue: insiemi, patrimoni di parole e regole d’uso propri di singole comunità
storiche in determinati periodi”: questa è la definizione data da Tullio De Mauro
(1988/1982, P. 8). L’autore si riferisce ovviamente agli idiomi parlati sulla Terra, il
che forse rende la definizione imprecisa; infatti, anche l’elfico di John Ronald Reuel
Tolkien potrebbe essere considerato una lingua vera e propria. Gli Elfi, nel mondo
fantastico creato dall’autore, sono a tutti gli effetti una comunità storica vivente in
un determinato periodo che si esprime mediante segni linguistici propri.
L’elfico di Tolkien è forse una delle lingue inventate più conosciute al mondo ma ce
ne sono moltissime altre che si potrebbero prendere in considerazione, come la
lingua kēlen, creata da Sylvia Sotomayor per motivi letterari nel 1980; si tratta di
una lingua caratterizzata dall’assenza di verbi e parlata dai Kēleni, popolazione
umanoide del pianeta Tērjemar. Un altro esempio è la lingua ayeri, progetto di
lingua pianificata di Carsten Becker che nell’anno 2003 ha cominciato, per motivi
puramente ludici, a dedicarsi alla codificazione di un linguaggio inventato. Anche il
klingon, ideato da Mark Okrand per Star Trek, è un esempio appropriato e ne
esistono molti altri ancora.
Un’altra lingua inventata, molto recente, è l’alto valyriano, pianificato insieme al
dothraki dal linguista David J. Peterson per la serie televisiva Il Trono di Spade,
basata sui libri dello scrittore americano George R.R. Martin Le Cronache del
Ghiaccio e del Fuoco.
Come l’elfico, l’alto valyriano è una lingua che non appartiene al nostro mondo ma
che viene parlata e scritta a Essos, il Continente Orientale nel quale si svolge parte
11
della storia raccontata della serie televisiva. Le differenze tra le lingue citate sopra
e quelle parlate sulla Terra, dette naturali, sono molteplici; ciò che differenzia
maggiormente le une dalle altre è chiaramente la loro origine in quanto essa
determina il loro futuro sviluppo. Le lingue pianificate sono frutto di un atto di
creazione consapevole e condividono quindi caratteristiche simili tra loro; tuttavia,
esse non sono soggette a continue variazioni grazie all’opera dei parlanti, come
succede per le lingue naturali. Queste ultime, infatti, subiscono varie evoluzioni nel
corso del tempo, fino a divenire come le conosciamo oggi. Si intende quindi per
lingua naturale una qualunque lingua esistente al mondo che sia nata
spontaneamente e abbia subito fasi di evoluzione perché soggetta a variazioni e
mutamenti, vale a dire qualsiasi lingua parlata (Peterson, 2015). Silvia Luraghi
(2006/2013) puntualizza inoltre che essa deve essersi sviluppata in una comunità
di parlanti, essere trasmessa tra le generazioni, essere appresa quindi come lingua
materna, di prima socializzazione, dai nuovi parlanti.
Tornando alla definizione di lingua, per considerare dunque l’elfico, l’alto valyriano
o il dothraki come lingue, potremmo parlarne in senso lato come di un complesso
sistema di comunicazione.
La comunicazione verbale umana avviene
correttamente nel momento in cui l’emittente che lancia il messaggio linguistico e il
ricevente che lo interpreta condividono un codice, grazie al quale è possibile
attribuire un significato alla realtà.
Per codice s’intende dunque […] l’insieme di corrispondenze, fissatesi per
convenzione fra qualcosa (insieme manifestante) e qualcos’altro (insieme
manifestato) che fornisce le regole d’interpretazione dei segni. Tutti i
sistemi di comunicazione sono dei codici […]. I segni linguistici
costituiscono il codice lingua (Berruto & Cerruti, 2011, P. 7).
È necessario specificare che esistono vari tipi di codice con caratteristiche che li
rendono estremamente diversi tra loro. Per esempio una lingua come l’italiano è
diversa dal linguaggio matematico, pur essendo entrambi codici; l’italiano è dotato
infatti, come tutte le lingue, di proprietà specifiche quali l’onnipotenza semantica,
la plurifunzionalità e la riflessività. L’onnipotenza semantica indica la capacità della
lingua di esprimere qualsiasi contenuto; con plurifunzionalità s’intende la
possibilità di adempiere a molte funzioni diverse; la riflessività, o funzione
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metalinguistica, è infine la capacità della lingua di riflettere su se stessa. Inoltre il
codice linguistico è vivo e in continuo divenire varia nella dimensione diacronica a
opera dei parlanti, che ne possono modificare le regole. Le regole del codice
matematico, invece, non sono modificabili. L’uso di un codice linguistico è creativo,
l’uso del codice matematico non lo può essere; il parlante è colui che garantisce la
vitalità di un codice linguistico e contribuisce a creare e mantenere le varianti
oppure a decretarne l’abbandono. Colui che usa il codice matematico ne condivide
le regole, ma non può modificarle.
Un altro termine utilizzabile per definire le lingue è quello di “lingue reali”, che
comprende sia quelle naturali sia quelle pianificate, in quanto entrambe esistono e
sono nate o sono state create nel nostro mondo. Tuttavia, per non focalizzare
l’attenzione esclusivamente sull’esistenza reale o meno di una lingua, occorre
sottolineare che storia ed evoluzione di un idioma nato naturalmente e parlato da
secoli sono diverse da quelle di un idioma che è stato creato artificialmente. L’alto
valyriano, essendo una finzione, non ha subito i vari mutamenti come di solito
accade con le lingue naturali; esse sono infatti soggette a molti cambiamenti nel
corso del tempo (mutamento diacronico), tanto che, evoluzione dopo evoluzione,
ne possono anche nascere di nuove (basti pensare al passaggio dal latino alle
lingue romanze).
Per definire dunque in modo preciso un idioma come l’alto valyriano,
differenziandolo però da quelli del nostro mondo, occorre scegliere il modo
migliore, tra le varie proposte che troviamo in letteratura, con il quale possiamo
riferirci a esso.
A tale proposito, le tre che paiono essere più interessanti sono le seguenti:
Lingua pianificata: “Sistema linguistico completo definito per iscritto da un pia-
nificatore linguistico, detto glottoteta, per i fini più diversi”, come la definisce
Gobbo (2009, P. 70);
Lingua artificiale: “Lingua costruita consciamente per mezzo di una serie di con-
venzioni sia nelle regole che nel lessico”, come viene definita in Aga Magéra Di-
fúra (Albani & Buonarroti, 1994/2011, P. 46);
Lingua immaginaria: “Sistema di segni, spesso non codificati, appartenente ad
una comunità o popolo inesistenti, elaborato per fini non pratici, ma puramente
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ludico-espressivi” (Albani & Buonarroti, 1994/2011, P. 194).
Ciascuna di queste definizioni è importante, poiché ci fornisce informazioni
diverse; la prima, oltre a specificare il concetto di lingua pianificata, introduce la
figura del glottoteta, diverso dal linguista in quanto quest’ultimo non crea le lingue,
bensì le studia scientificamente. Non necessariamente un glottoteta si occupa di
linguistica a livello professionale; alcune Lingue Ausiliarie Internazionali (che
saranno trattate più avanti) sono infatti state create da glottoteti che erano medici,
ingegneri, matematici o sacerdoti. La definizione specifica, inoltre, che una lingua
può essere creata per diversi fini, siano essi filosofici, di gioco, religiosi, letterari,
linguistici o scientifici; nel caso dell’alto valyriano, il fine è letterario.
La seconda definizione permette di distinguere le lingue artificiali da quelle
naturali in quanto queste ultime, come specificato in precedenza, sono frutto di
un’evoluzione; le convenzioni non sono quindi stabilite consapevolmente da
qualcuno, mentre per gli idiomi artificiali è compito del creatore, o dei creatori,
elaborare consciamente queste convenzioni.
La terza infine spiega che una lingua immaginaria, creata esclusivamente per un
fine ludico, appartiene a una comunità anch’essa immaginaria.
Tra le tre denominazioni, pur essendo tutte condivisibili, quella di “pianificata” è la
più adeguata in quanto descrive in modo esauriente tutte le caratteristiche
fondamentali di questo tipo di lingue. Per questo motivo è quella che verrà
utilizzata in questa trattazione, imitando la scelta di Federico Gobbo (2009, P. 70) il
quale ritiene che questa sia la terminologia più adatta nonostante esistano appunto
varie denominazioni.
Finora l’attenzione è stata posta unicamente sulle lingue pianificate appartenenti a
comunità inesistenti, i cui creatori hanno perseguito un fine letterario. Tuttavia,
secondo la definizione di lingua pianificata, è possibile che un glottoteta si ponga
come fine quello linguistico. Esistono infatti idiomi pianificati creati per essere
parlati e scritti in questo mondo da comunità esistenti, chiamati Lingue Ausiliarie
Internazionali (LAI), cioè “lingue per facilitare le relazioni scritte e orali tra
persone di lingue materne diverse” (Albani & Buonarroti, 1994/2011, P. 49)
oppure LIA, come preferisce definirle Umberto Eco.
Una LAI deve soddisfare determinate esigenze: innanzitutto non deve essere una
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delle lingue nazionali già esistenti poiché, se così fosse, si favorirebbero i parlanti
della stessa. Essa deve essere, al contrario, il più neutra possibile, come afferma
Umberto Eco (1996/2006), riferendosi ai progetti di Lingue Internazionali
Ausiliarie fioriti agli inizi del XX secolo: “[…] analoga a quelle naturali, mamma […]
sentita come neutra da tutti i propri utenti” (p.342). Non deve neanche essere una
lingua morta come il latino, nonostante ci sia stato un tentativo, fallito, di riportarlo
in vita con qualche modifica. Questo progetto ha il nome di Latino sine Flexione ed è
stato portato avanti dal matematico Giuseppe Peano, nel 1903, il quale lo
proponeva come lingua esclusivamente scritta e per la comunicazione scientifica,
come afferma Federico Gobbo (2009). Si trattava, come ricorda Umberto Eco
(1996/2006), di un latino semplificato, privo di declinazioni, per cui “[…] come per
altre lingue internazionali, […] vale la prova del consenso delle genti: il Latino sine
flexione non si è diffuso e rimane […] come mero reperto storico” (P. 348). Un’altra
esigenza di una LAI è quella di “essere capace di servire alle relazioni abituali della
vita sociale, agli scambi commerciali e ai rapporti scientifici e filosofici” (Albani &
Buonarroti, 1994/2011, P. 49). Infine, essa deve “essere di facile acquisizione per
tutte le persone d’istruzione elementare media e in particolare per le persone di
civilizzazione europea” (P. 49). Questa esigenza ha causato vari problemi per
quanto riguarda molti progetti di LAI proposti; è difficile realizzare una lingua di
facile apprendimento per tutti senza favorire una parte dei parlanti e senza
compiere scelte che rischiano di distruggerla. Un esempio è dato da ciò che è
accaduto al volapük, lingua creata dal tedesco Johann Martin Schleyer. Egli aveva
preso l’inglese come modello su cui basare la propria lingua pianificata; tuttavia,
per rendere l’apprendimento più semplice ai cinesi, aveva deciso di rimuovere la
“r” perché per loro tale lettera sarebbe stata molto difficile da pronunciare. In
questo modo però la lingua è diventata ardua da capire e apprendere anche per gli
europei, dunque il progetto non si è ulteriormente sviluppato, come specifica
Federico Gobbo (2009).
1.2 Lingue pianificate e lingue naturali: confronti
Dopo aver fatto chiarezza sulla terminologia più adatta da utilizzare, è bene cercare
di capire se una lingua pianificata possa essere considerata allo stesso livello di una
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naturale; per fare ciò occorre chiarire se ci sono punti in comune tra loro.
Una prima differenza è già stata individuata in precedenza: l’origine. Mentre le
lingue naturali sono frutto di un processo di evoluzione della durata di secoli, le
pianificate nascono dall’atto di creazione del loro inventore. La ricerca di
caratteristiche comuni tra i due tipi di lingue, però, in questa parte della
trattazione, sarà più dettagliata; in particolare verranno esaminate le proprietà
generali delle lingue, ovvero gli attributi che ogni idioma possiede.
Antonio Romano (2010) spiega in che cosa consistano queste proprietà generali;
prima, però, fa una breve introduzione nella quale spiega che qualunque sistema
linguistico si prenda in considerazione avrà delle componenti di base che si
potranno ritrovare in tutti gli altri: fonologia, morfologia, sintassi e lessico. È
importante sottolineare che egli prende in considerazione solo le lingue naturali e
non quelle pianificate: sarà dunque mio compito capire se ciò che lui scrive sia
valido anche per queste ultime.
La prima proprietà che l’autore descrive è la plurifunzionalità linguistica (già
accennata in precedenza), che consiste nella possibilità della lingua di poter essere
utilizzata per parlare di ogni cosa, anche di se stessa (proprietà metalinguistica). Per
quanto riguarda le lingue naturali, la conferma dell’esistenza di questa proprietà
avviene ogni giorno, in quanto i parlanti conversano intorno a vari argomenti e, In
qualche modo, riescono sempre a esprimere ciò che vogliono dire. È importante
notare che alcuni idiomi sono più precisi di altri: per esempio in inglese troviamo il
verbo to look up del quale, se preso in una certa accezione, in italiano non esiste un
corrispettivo. Tuttavia si può rendere il senso utilizzando la frase “fare una breve
visita a”. Differenze di questo genere si ritrovano anche in altri casi, spesso dovute
all’ambiente circostante e alla cultura del popolo. Prendendo in considerazione due
dialetti italiani, il piemontese e il siciliano, emergeranno infatti varie differenze
linguistiche legate all’ambiente. Piemonte e Sicilia si trovano uno all’estremo nord e
l’altra all’estremo sud dell’Italia, cioè a latitudini molto distanti tra di loro, dunque
sono interessati da fenomeni atmosferici molto diversi tra loro. In piemontese ci
sono vari modi di denominare la neve: fioca, per esempio, è un termine che indica la
neve in generale, mentre patarass si riferisce in particolare alla neve tipica degli inizi
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di marzo. In siciliano non troveremo questa differenza di termini così specifica, mamma
sarà più facile incontrare diverse parole per definire il mare.
Per quanto riguarda le lingue pianificate, anch’esse sono caratterizzate da
plurifunzionalità linguistica, qualunque sia lo scopo della loro creazione. Se una
LAI non avesse questa proprietà sarebbe incompleta, dunque non sarebbe utile a
favorire la comunicazione internazionale. Riguardo invece le lingue pianificate per
mondi immaginari, come l’alto valyriano, bisognerà spendere qualche parola in più.
Essendo costruite per popoli inesistenti, che vivono in luoghi inesistenti e con una
cultura inesistente, queste lingue possono sembrare, di primo acchito, incomplete;
nel dothraki, per esempio, manca la parola “grazie”, ma questo non significa che
esso sia davvero incompleto. In siciliano non esiste un termine che indichi “la neve
tipica di marzo”, ma questo dialetto viene comunque considerato completo in
quanto in Sicilia questa parola non è necessaria. Anche al dothraki, allora, non
mancano parole fondamentali alla comunità per esprimersi, perché quelle che
possiede sono sufficienti alla comunicazione tra i parlanti. Nel caso della differenza
prima citata tra piemontese e siciliano, siamo in una situazione legata all’ambiente
e al fatto che i dialetti regionali italiani, pur essendo tutti idiomi romanzi
(neolatini), sono diversi tra loro. Tale diversità è dovuta alla storia linguistica
italiana: essa ha prodotto molte varietà di parlate, la cosiddetta Babele italica,
causata dalle vicende sociali, politiche e culturali della penisola, in cui la realtà e
cultura, collegate dalla tradizione latina, sono state però segnate da divisioni e
allontanamenti (Gensini 1988/1992). I dialetti sono lingue parlate a livello locale
da comunità di parlanti che, al di là delle differenze regionali, condividono lo stesso
codice linguistico, quello dell’italiano standard. Per quanto riguarda invece la
differenza tra dothraki e alto valyriano, parliamo di due codici diversi parlati da
due distinte comunità che vivono nello stesso continente e nello stesso arco
temporale, ma che sono costituite da due società diverse caratterizzate da culture
differenti. In alto valyriano, per esempio, esiste un termine per ringraziare
(kirimvose). Tale lingua è stata creata per lo stesso mondo fantastico di parlanti
dothraki, con la differenza che il popolo di Valyria ha un livello culturale
estremamente alto, a differenza del popolo dei Signori del Cavallo (altro nome per
indicare il popolo dei dothraki), in quanto la loro cultura ruota interamente attorno
17
a questi animali. Questo si riflette anche sulla lingua; per tradurre, per esempio,
“sono già stata qui” si userà il verbo dothralat, cioè cavalcare, e non essere, per cui
la frase tradotta letteralmente sarà “ho già cavalcato qui”, (anha ray dothra jinne
hatif ajjin). Continuando il ragionamento sulla mancanza di espressioni linguistiche
di cortesia in dothraki, evidentemente ciò è dovuto al fatto che, nella loro rozza
società, non sono previsti né cortesie né ringraziamenti.
Un’altra proprietà delle lingue è l’universalità: come scrive Romano (2010), ciò
significa che “non esiste […] gruppo umano, per quanto piccolo e/o isolato, che non
usi un sistema di comunicazione verbale (orale)" (P. 27). L’autore parla di “gruppi
umani” quindi, nonostante egli si riferisca solo agli uomini viventi sul pianeta Terra,
la sua spiegazione si può perfettamente adattare a qualunque essere umano
vivente in qualunque luogo. I Valyriani, pur essendo un popolo immaginario, sono
comunque persone e l’essere persona implica che si utilizzi un sistema di
comunicazione verbale orale, così come l’esistenza di una data lingua implica che
essa sia la forma di espressione di un popolo. Un idioma infatti non avrebbe senso
di esistere se non fosse utilizzato, anche in un mondo immaginario, da un popolo o
da una comunità.
Nel caso in cui uno scrittore volesse inventare una storia fantascientifica
ambientata nello spazio, con degli alieni come protagonisti, potrebbe avvalersi del
fatto che essi non sono umani; pertanto, potrebbero avere un sistema di
comunicazione diverso. Per esempio, sarebbe plausibile che le loro interazioni
potessero avvenire a un livello puramente mentale. A questo punto un qualsiasi
sistema linguistico orale sarebbe inutile, in quanto per la comunicazione sarebbe
sufficiente la mente, cosa che non può avvenire con gli umani, i quali necessitano di
un codice linguistico condivisibile per esternare i loro pensieri.
Parlando di universalità, l’autore specifica tra parentesi che il sistema di
comunicazione utilizzato dai gruppi umani per esprimersi è orale: perché non
scritto? La risposta porta alla terza proprietà delle lingue, ovvero la priorità del
parlato; infatti, mentre la comunicazione orale è usata da ogni essere umano, ciò
non vale per quella scritta. La veridicità di questa affermazione si può dimostrare
anche solo pensando alla storia. Quando nacque la scrittura gli uomini esistevano
ormai da migliaia di anni, ma ciò non significa che prima della scrittura essi non
18
fossero in grado di comunicare tra loro; semplicemente utilizzavano un sistema
esclusivamente orale o gestuale per interagire.
In questo caso per quanto riguarda le lingue pianificate c’è una differenza in quanto
esse si comportano esattamente al contrario: inizialmente il glottoteta scrive la
struttura della lingua e solo in seguito essa potrà dare voce a una comunità.
Affermando che un idioma può avere sia una versione orale che una scritta, è stata
individuata un’altra proprietà: la trasponibilità di mezzo, ovvero la possibilità di
trasporre la produzione verbale di ogni sistema linguistico secondo codici scritti e
viceversa. Le regole da rispettare per eseguire quest’operazione variano da lingua a
lingua: in italiano, per esempio, a ogni lettera corrisponde un suono. Venire
affermano G. Berruto e M. Cerruti (2011), alcuni sistemi di scrittura, tra cui quello
italiano, si basano sull’inventario fonematico della lingua stessa e “l’ortografia
dell’italiano […] riproduce le unità fonologiche con una certa fedeltà.
Ciononostante, non mancano casi in cui il rapporto biunivoco tra i suoni e i grafemi
viene a mancare” (P. 54). Succede quindi che esistano dei suoni la cui
rappresentazione grafica in italiano non è prevista (esempi: /e/~ /Ɛ/ , /o/~ /ͻ/) e
che lo stesso grafema serva a rappresentare fonemi diversi (es. “accétta” [aʹtː⨛etːa]
~ “accètta”[aʹtː⨛Ɛtːa]), o che occorrano combinazioni di grafemi per rappresentare
delle opposizioni fonematiche come, per esempio, “ch” e “gh” davanti a “i” ed “e”
(“china” [ʹkiːna] ~ “Cina” [ʹt∫iːna]), oppure che grafemi diversi rappresentino lo
stesso suono come “c”, caro, [ʹkaːro] e “q”, quadro [ʹkwaːdro]. Anche in russo, per
esempio, a ogni lettera corrisponde un suono. Al contrario, ciò non vale per
l’inglese o il francese la cui grafia è piuttosto lontana dalla fonia, per cui i suoni
corrispondono a sequenze di lettere e le lettere non sempre hanno delle
corrispondenze foniche. Di conseguenza, per tali lingue, le regole da seguire per
pronunciare correttamente le parole sono piuttosto complicate.
Nelle lingue pianificate questa proprietà è scontata in quanto, come già spiegato,
per esse c’è una priorità dello scritto sul parlato e non il contrario, dunque
ovviamente una volta scritto l’idioma si potrà iniziare a parlarlo.
Un’altra caratteristica ancora di cui parla Antonio Romano (2010) è il
distanziamento; grazie a questa proprietà è possibile comunicare con altri esseri
19
umani anche intorno a referenti che non sono presenti nello spazio fisico in cui ha
luogo la conversazione o che si svolgono in un tempo cronologicamente lontano dal
momento conversazionale. Per parlare di un albero, non siamo costretti a indicarne
uno in modo da far capire al nostro interlocutore ciò a cui ci stiamo riferendo,
poiché lui sa che la parola “albero” si riferisce a qualcosa di preciso e, al solo
sentirla nominare, nella sua mente prenderà forma la sua idea di albero. Se non
scatta questo meccanismo, vuol dire che l’interlocutore non conosce il significato
della parola; sarà sufficiente spiegargli a che cosa essa si riferisce o fornirgli la
traduzione in una lingua che egli conosce affinché gli sia chiaro il concetto. Tutto
ciò è ovviamente possibile anche con le lingue pianificate: l’unica condizione
necessaria è sapere a che cosa pensare nel momento in cui ascoltiamo un dato
termine. A questo punto vale però la pena fare un breve accenno a un importante
glottologo che ha rivoluzionato la linguistica: Ferdinand de Saussure. È importante
citarlo in questo momento in quanto egli ci fornisce, come ricordano Berruto e
Cerruti (2011), i principi della nuova linguistica, chiamata generale, grazie al Cours
de linguistique générale; si tratta di un’opera postuma in cui i suoi studenti
dell’Università di Ginevra raccolsero, nel 1916, le sue lezioni. A partire da tali
principi, è possibile sottolineare una distinzione che farà più chiarezza sulla
proprietà linguistica del distanziamento.
Come puntualizzano Romano e Miletto (2010), De Saussure afferma che i segni
linguistici (ovvero gli elementi che due interlocutori si scambiano durante una
conversazione) possiedono due facce: il significante e il significato. Il primo è il lato
più materiale, il supporto del messaggio, e può essere vocale (costituito dai suoni
che gli interlocutori emettono), oppure alfabetico (basato sui grafi e sui grafemi). Il
secondo è immateriale e rimanda al concetto che la parola vuole trasmettere. È
proprio grazie a quest’ultimo che è possibile il distanziamento in quanto le parole,
tramite il loro aspetto fisico (il significante) rimandano a un concetto in particolare
(il significato), dunque possono essere comprese anche senza che l’interlocutore
abbia a portata di mano o sott’occhio il referente designato.
Infine, un’altra importante proprietà delle lingue è la trasmissibilità culturale:
come affermano Berruto e Cerruti (2011), consiste semplicemente nella capacità
delle comunità umane di trasmettere per tradizione alle generazioni future la
20
propria lingua. Di nuovo, è un discorso applicabile alle “comunità umane”, il che lo
rende quindi valido anche per le lingue pianificate in quanto, seppure in un mondo
fittizio, esse sono parlate da esseri umani tanto quanto le lingue naturali.
1.3 Lingue pianificate: classificazione
Fino a qui sono stati trattati due tipi di lingue pianificate: quelle costruite per scopi
letterari e le LAI, inventate invece con il fine di agevolare le conversazioni
internazionali e il dialogo universale, come ricordano Berruto e Cerruti (2011).
Esistono però anche altri motivi per cui questi idiomi vengono plasmati, a seconda
dei quali essi assumono caratteristiche diverse. Dunque per fare un po’ d’ordine
occorre classificare i vari tipi di lingua pianificata.
Esistono diversi modi per farlo, ognuno dei quali permette di concentrarsi
maggiormente su un aspetto in particolare: adottando per esempio una
classificazione in ordine cronologico, si presterà maggiore attenzione ai vari
contesti storici in cui le lingue in questione sono state sviluppate e alla loro
evoluzione nel tempo. Un’altra classificazione possibile prende in considerazione
gli idiomi a seconda del fine per cui sono stati creati; essendo il tipo di
catalogazione che offre una visione più completa sulle varie tipologie di lingue, è
dunque quella presentata e analizzata qui di seguito.
Prima però è necessaria una premessa per spiegare la differenza tra lingue
cosiddette a priori, a posteriori e miste, secondo la letteratura (Gobbo, 2009;
Albani & Buonarroti, 1994/2011).
Una lingua a priori è un idioma completamente a sé stante, che viene cioè creato
senza prendere spunto da quelli naturali;
Una lingua a posteriori è esattamente l’opposto, ovvero è un idioma che viene
pianificato basandosi su fonologia, grammatica, sintassi e/o altre caratteristiche
di una lingua naturale;
Una lingua mista è un idioma pianificato che si ricava in parte basandosi su uno
naturale, in parte creandolo dal nulla.
Chiarite queste tre differenze, per esemplificare la classificazione delle lingue
pianificate possono essere utili lo schema che segue, elaborato a partire dal
21
modello riportato in Aga Magéra Difúra (Albani & Buonarroti, 1994/2011, pp. 12-
13) e la sua successiva analisi.
Figura 1: Classificazione delle lingue pianificate – Schema rielaborato da Aga Magéra Difúra (Albani
& Buonarroti, 1994/2011, pp. 12-13)
Quando si studia una lingua pianificata, uno dei primi suoi aspetti da considerare è
il motivo per cui è stata creata, in quanto il fine determinerà, insieme ad altri
fattori, il risultato finale. Ecco dunque che si distinguono lingue sacre e non sacre;
come specificano Albani e Buonarroti (1994/2011), le prime permettono la
comunicazione con il divino, mentre le altre rientrano nella “tipologia che
comprende da un lato i progetti per la comunicazione a scopo sociale e dall’altro le
sperimentazioni più o meno artistiche motivate da un puro gioco espressivo” (p.8).
22
Facendo un breve accenno alle prime, le quali non saranno più trattate in seguito,
esse si suddividono in strutturate, come il balaibalan, e non strutturate, come le
glossolalie. Il balaibalan è una lingua pianificata creata negli ambienti mistici
islamici attorno al XV secolo, probabilmente da uno sceicco arabo. Quest’idioma è
considerato completo in quanto possiede una propria grammatica, una propria
sintassi e un proprio lessico, le cui parole sono per lo più di origine persiana e
turca. Alessandro Bausani la considera “la prima vera e propria lingua inventata del
mondo colto” (Bausani, 1954; Bausani, 1974, pp. 89 – 97, citato da Albani &
Buonarroti, 1994/2011, p.55). Le glossolalie sono invece pseudo-lingue inventate
semplicemente accostando tra di loro parole prive di senso; in ambito sacro e
religioso, come ci ricordano Albani e Buonarroti (1994/2011), si considerano
glossolalie i modi di parlare dei profeti in quanto essi non scelgono personalmente
le parole ma sono guidati in questo dallo Spirito Santo ed essi stessi non
comprendono ciò che dicono. Per il cristianesimo, la glossolalia è quindi un dono
grazie al quale il fedele ha la possibilità di parlare una lingua a lui sconosciuta.
Esempi di glossolalie sono preghiere di appartenenti al movimento religioso dei
pentecostali, oppure di missionari in tempi passati, oppure di medium in stato di
trance.
Anzi, le lingue non sacre possono essere create a scopo di comunicazione
sociale o di gioco; siccome a entrambe queste categorie appartengono molti esempi
di lingue pianificate, è stata effettuata una selezione analizzando solo quelli ritenuti
più importanti.
Tra gli idiomi creati a scopo di comunicazione sociale, troviamo linguaggi ibridi
(per esempio i pidgin), le crittografie, i linguaggi abbreviati (stenografie), io
linguaggi logico-matematici e le LAI, già accennate in precedenza. Queste ultime
possono essere definite a priori, a posteriori o miste. Tra quelle a priori troviamo le
lingue filosofiche, ovvero sistemi di segni convenzionali che hanno lo scopo di
eliminare le ambiguità e gli equivoci prodotti dagli idiomi naturali; per questo
motivo vengono spesso associate al termine “lingua perfetta” come ricorda
Umberto Eco (1996/2006): “[…] il sogno di una lingua perfetta è duro a morire, e
non mancano nel settecento progetti compiuti di lingue universali” (P. 315).
Cambiando categoria, troviamo le lingue a posteriori: un esempio molto conosciuto
23
è l’esperanto, lingua creata da Lejzer Ludovik Zamenhof a fine ‘800. Questo famoso
progetto di LAI è basato sulle lingue romanze, germaniche e slave, il che lo rende
appunto una lingua a posteriori, e ha avuto molto successo. Siccome tale lingua
sarà trattata più nello specifico in seguito, verrà ora presentato l’ultimo tipo di LAI:
le lingue miste, come il volapük. Anch’esso progetto di lingua internazionale e nato
quasi in concomitanza con l’esperanto, non condivide il suo successo in quanto è
risultato troppo complicato da comprendere ed è stato quindi abbandonato. È
considerato un sistema misto in quanto si basa su inglese, tedesco e lingue latino-
romanze, ma possiede anche una caratteristica tipica degli idiomi a priori, ovvero
la scelta del suo creatore, Johann Martin Schleyer, di eliminare la “r” (cfr. cap. 1).
Successivamente, si trovano i linguaggi logico-matematici (o linguaggi di
programmazione), anch’essi creati a scopo di comunicazione sociale. Si tratta di un
“insieme di caratteri che formano parole, espressioni, frasi e aggregati più ampi”
(Albani & Buonarroti, 1994/2011, P. 340) utilizzato in ambito informatico. Questi
particolari linguaggi sono caratterizzati da non ambiguità ed eseguibilità e hanno
una sintassi precisa e severa. Alcuni esempi sono il COBOL (COmmon Business
Oriented Language), codice creato nel 1959 con una grammatica molto vicina alla
lingua naturale inglese in quanto pensato appositamente per applicazioni in
ambito amministrativo e commerciale, o il più recente Java, emerso nel 1995 e più
“distante” dall’inglese nonostante questa lingua rimanga ancora alla sua base.
In seguito, troviamo i linguaggi abbreviati, ovvero sistemi di segni che svolgono la
funzione di surrogati linguistici delle lingue naturali. Un esempio molto comune
sono gli acronimi o le sigle come etc., prof., o UNESCO, ma rientra in questa
categoria anche la stenografia, una scrittura veloce e sintetica che si avvale di segni
e abbreviazioni per formulare parole. L’invenzione di questo codice è attribuita a
Marco Tullio Tirone, il quale utilizzò un sistema simile per annotare in modo
rapido le orazioni del suo patrono Marco Tullio Cicerone.
In qualche modo simile alla stenografia abbiamo la crittografia, ovvero la scrittura
segreta, utilizzata ovviamente per produrre un messaggio comprensibile solo a chi
conosca il codice utilizzato.
L’ultima voce da prendere in esame per quanto riguarda le lingue create a scopo di
comunicazione sociale è quella dei linguaggi ibridi: essi sono il risultato di una
24
miscela di varie lingue tra loro. L’esempio più comune è costituito dalle lingue
pidgin e creole, nate nel periodo del commercio triangolare e della tratta degli
schiavi. Esse sono frutto del contatto tra due o più idiomi diversi quali le lingue
degli schiavi, le lingue dei nativi e una lingua coloniale come spagnolo, portoghese,
francese, olandese, o inglese; la lingua coloniale è considerata “lessificatrice” per la
sua forte influenza sulla nuova lingua che sta nascendo. La differenza principale tra
pidgin e creolo è che quest’ultimo deriva dal primo; entrambi hanno origine
dall’incontro di varie lingue, ma nel momento in cui il pidgin inizia a essere parlato
dai nati delle nuove generazioni e la grammatica fortemente semplificata si evolve
verso forme più complesse, esso sarà definibile creolo. Nonostante questa
evoluzione, tuttavia, la lingua continuerà a rimanere piuttosto semplice. Alcune
località in cui si parlano oggi varietà di creolo, come specificano Albano e
Buonarroti (2011) sono le isole di Capo Verde, Haiti, le Antille o le isole Mauritius e
La Réunion.
Infine, troviamole lingue non sacre create per scopo di gioco o espressivo: le più
diffuse sono quelle artistico-letterarie, che si sviluppano non solo in ambito
letterario, ma anche nel cinema, nel teatro, nella musica o anche nei fumetti. Di
solito sono idiomi creati per i generi fantasy o fantascientifico, in quanto danno
voce ad alieni o a comunità che vivono in luoghi immaginari. Due esempi già citati
sono il klingon e l’alto valyriano: entrambi creati per il cinema, hanno anche dei
testi a loro dedicati e sono dotati di sintassi e fonologia proprie e lessico specifico.
È importante notare che esso risulta molto diverso dall’una all’altra poiché l’alto
valyriano è utilizzato in un mondo fantasy ambientato in una sorta di Medioevo,
mentre il klingon è parlato da una razza aliena capace di costruire navicelle per
viaggiare nello spazio.
Queste sono le principali tipologie di lingue inventate esistenti; ce ne sarebbero
tantissime altre di cui parlare e per ognuna di esse si potrebbe scrivere un libro per
scendere nei particolari e analizzarla in modo preciso. Per questa trattazione si è
scelto di considerare soltanto l’alto valyriano poiché la serie televisiva Il Trono di
Spade è ormai molto seguita a livello mondiale, ma raramente i suoi fan prestano
attenzione al discorso linguistico, nonostante esso sia molto interessante da
studiare approfonditamente e offra diversi spunti di riflessione.
25
CAPITOLO 2
Nascita di una lingua
2.1 Processo di nascita e sviluppo di una lingua naturale
Le lingue naturali sono frutto di numerosi mutamenti che si verificano nel corso
del tempo. Quelle pianificate, invece, sono create da uno o più inventori. In questo
capitolo sarà presentata l’analisi del modo in cui si verificano i mutamenti
linguistici e le conseguenze che ne derivano. Questi cambiamenti non avvengono
mai in modo improvviso, ma necessitano di molto tempo per affermarsi (Luraghi,
2006/2013). Difatti, i parlanti non si rendono conto che la loro lingua si sta
lentamente evolvendo; saranno i posteri ad accorgersi dei mutamenti avvenuti nei
secoli che, talvolta, possono portare alla nascita di una nuova lingua. Questo
fenomeno è denominato “variazione diacronica” ed è oggetto di studio della
linguistica storica, che si occupa di studiare i cambiamenti delle lingue nel tempo e
le modalità in cui essi avvengono (Berruto & Cerruti, 2011).
Il mutamento linguistico può essere causato da diversi fattori, interni ed esterni
alla lingua stessa, fattori che possono essere di tipo ambientale, sociale, storico,
culturale, politico, demografico. I mutamenti possono essere di diversi tipi e
riguardare il suono, la morfologia, la sintassi, il lessico. Dal punto di vista fonetico,
avvengono,
per esempio,
fenomeni di assimilazione o dissimilazione.
L’assimilazione avviene quando un fono assume i tratti di un fono vicino e i due
foni diventano simili o uguali; per esempio, il latino noctem si è trasformato
nell’italiano notte, in cui la occlusiva velare sorda [k] diventa dentale come la [t],
occlusiva dentale sorda. La dissimilazione avviene quando in una parola due foni
simili o uguali non contigui diventano diversi come è successo, per esempio, nel
passaggio dal latino venenum all’italiano veleno.
I mutamenti morfologici hanno fatto sì che, nel passaggio dal latino all’italiano,
27
cadessero i casi e il genere neutro. Il mutamento sintattico riguarda l’ordine dei
costituenti della frase. In latino l’ordine è soggetto-oggetto-verbo; nelle lingue
romanze l’ordine è soggetto-verbo-oggetto. Il mutamento lessicale avviene con
fenomeni di arricchimento del lessico, che possono verificarsi in vari modi: con
l’ingresso nella lingua di neologismi, cioè di nuovi lessemi, oppure con i
meccanismi che permettono la formazione di parole nuove, come la derivazione o
la composizione. Un ulteriore possibilità è l’apporto da altre lingue, che può
avvenire sotto forma di prestito o di calco. I lessemi si possono anche perdere, con
il passare del tempo. Alcune parole latine sono state abbandonate, come cunctus
(tutto intero); anche alcune parole italiane sono state abbandonate nel corso del
tempo come, per esempio, la parola donzello (Berruto & Cerruti, 2011).
Oltre a quella diacronica, esistono altre dimensioni di variabilità che influenzano
anch’esse lo sviluppo delle lingue. La variazione diatopica consiste nella presenza
di varianti linguistiche in relazione allo spazio. In Italia, per esempio, esistono
diversi modi per definire lo stesso oggetto. Si tratta di varietà regionali dal punto di
vista lessicale. Per esempio, l’appendiabiti può essere chiamato “attaccapanni”,
oppure “ometto”, oppure “appendino”, a seconda del luogo geografico di
riferimento.
Esistono anche delle varietà grammaticali che riguardano l’uso dei tempi e dei
modi verbali come, per esempio, l’uso del passato remoto o del congiuntivo nelle
varie regioni del nord, del centro e del sud Italia. Inoltre, esistono delle varietà
fonologiche, soprattutto per quanto riguarda i dialetti.
La variazione diafasica riguarda invece le varianti in base al contesto d’uso della
lingua. In ogni idioma si possono distinguere vari registri, quelli formali e quelli
informali, e in ciascuno di essi i parlanti si esprimono in modo diverso. In italiano,
per esempio, il verbo “fare” in un contesto formale è spesso sostituito dal sinonimo
“effettuare”; pur non cambiando il significato, il secondo verbo è più adatto a un
registro formale che non il primo.
La variazione diastratica è la presenza di varianti a seconda dello strato sociale di
appartenenza del parlante. Più il ceto è basso, più egli tenderà probabilmente a
utilizzare il dialetto al posto dell’italiano, il quale, se eventualmente parlato,
risulterà comunque influenzato dal vernacolo. Al contrario, se il parlante
28
appartiene a uno strato sociale alto avrà un accesso più facile all’istruzione e ciò
comporterà una maggiore competenza nell’utilizzo della lingua standard.
Esiste infine la variazione diamesica, vale a dire la presenza di varianti della lingua
in base al mezzo di produzione usato. Nella forma scritta c’è la tendenza a
utilizzare un tipo di linguaggio più formale e burocratico. Nel parlato invece,
generalmente il linguaggio è più informale e colloquiale, nonostante si usi, In
determinati contesti, anche un linguaggio formale.
Ciascuna di queste varietà è importante e contribuisce alla variazione diacronica;
essa infatti non avverrebbe se non esistessero, già in fase sincronica, ovvero in un
determinato arco temporale, diverse varianti della stessa lingua. La variabilità
viene definita mutamento nel momento in cui una varietà è accolta. Essa quindi
può affermarsi e diffondersi fino a contribuire al cambiamento dell’idioma di
partenza.
Nonostante le varianti sincroniche, tuttavia, le lingue attraversano dei periodi di
stabilità. Generalmente se un idioma gode di elevato prestigio subirà modifiche in
tempi più lunghi, mentre una lingua parlata da pochi si evolverà in tempi più
ristretti. Il prestigio di una lingua dipende da vari fattori: sarà alto se la lingua in
questione è ufficiale a livello nazionale, se è letteraria, cioè se esiste una
produzione letteraria in quella lingua, e se si insegna a scuola. Solitamente le lingue
più stabili sono quindi quelle ufficiali che si parlano a livello nazionale come
l’italiano, l’inglese, il francese e via dicendo. Anch’esse però tendono al
cambiamento, soprattutto al giorno d’oggi in cui i parlanti di ogni Stato sono
costantemente in contatto con altre lingue e culture, fattore che facilita
enormemente il mutamento linguistico.
Un altro aspetto molto utile per stabilire il livello di prestigio di una lingua è
costituito dalla forma di governo dello Stato in cui si parla l’idioma in questione. Se è
presente un centro politico unitario e coeso la lingua tenderà a essere più stabile,
mentre nel caso di frammentazione sarebbe invece favorito il mutamento linguistico.
Il latino, per esempio, non ha subito sostanziali mutamenti per secoli proprio perché
era parlato da una comunità unitaria e coesa con un forte centro politico unificatore.
Tuttavia, nel momento in cui l’Impero è crollato e questo centro si è disgregato, le
diverse varianti hanno iniziato ad affermarsi e diffondersi rapidamente, finché si è
29
giunti al mutamento del latino che si è trasformato nelle lingue romanze. Le varianti
che si sono affermate nei vari luoghi esistevano già da tempo, ma non avevano forza
sufficiente per imporsi; è stato necessario il crollo dell’Impero Romano per far sì che
le variazioni presenti nel latino si trasformassero in mutamenti.
Se non ci fossero dunque varianti in un determinato arco temporale non
avverrebbe alcun cambiamento nel tempo. La presenza di queste varietà è dovuta a
molteplici motivi.
Generalmente le lingue tendono a semplificarsi con il passare del tempo. I casi latini, per
esempio, sono stati abbandonati dalle lingue romanze e la sintassi si è semplificata.
Anche le differenze lessicali regionali italiane sono dovute a cause politiche, sociali e
culturali. È quindi lecito riproporre l’esempio precedente sulle varianti della parola
“appendiabiti”: il motivo della loro esistenza è da ricercarsi nel fatto che l’Italia è stata
per secoli una nazione estremamente frammentata con la presenza di vari centri
politici. Ciascuno di essi costituiva un polo politico e culturale quasi a sé stante, dunque
ha avuto ripercussioni sulla lingua che ha preso una direzione più o meno diversa per
ogni regione. (Luraghi, 2006/2013; Gensini, 1988/1992)
I mutamenti sono dunque la causa principale della nascita di nuove lingue, mamma
alcune possono prendere vita in un modo diverso, ovvero attraverso il contatto
linguistico. Ne sono un esempio perfetto le lingue creole e i pidgins, lingue di
contatto.
Se il mutamento diacronico porta alla nascita di una nuova lingua, potrà causare
anche la morte di quella precedente che, dopo essersi evoluta e trasformata, verrà
abbandonata.
Tali processi sono difficilmente prevedibili e solo a posteriori ci si renderà conto che si
sono accumulate nel tempo così tante differenze da rendere la lingua antica
incomprensibile, nonostante essa sia la base di quella nuova. C’è comunque un margine
di tempo in cui si può capire che la fine di una lingua è vicina: secondo l’Unesco, quando
essa non è più appresa da almeno il 30% dei parlanti come prima lingua, allora è
destinata a morire. A questo punto qualsiasi tentativo di recupero sarebbe poco
fruttuoso, perché se un idioma muore significa che non possiede prestigio e che i
parlanti non sono interessanti a mantenerlo in vita (Luraghi, 2006/2013).
30
2.2 Processo di creazione e sviluppo di una lingua pianificata
Una lingua naturale richiede secoli per formarsi e in realtà non ha mai un punto di
arrivo, se non temporaneo, in quanto continuerà a mutare nel tempo. Una lingua
pianificata, invece, nasce grazie a un atto di creazione consapevole e non deriva da
una lingua precedente; ciò non significa, però, che la nascita delle lingue pianificate
non attraversi una serie di passaggi. Il processo si divide in due fasi principali, IL
prima delle quali è la glottopoiesi: con questo termine si indica “la fase di
costruzione a tavolino del nucleo strutturale della lingua da parte del glottoteta”.
Durante questa fase egli ha il compito di decidere “la grammatica della lingua a
tutti i livelli – fonetica, morfologia, sintassi – e il dizionario di base” (Gobbo, 2009,
P. 72); alla fine di questo momento il glottoteta avrà creato una “lingua progetto”
(Blanke,1985, citato da Gobbo, 2009).
In questa prima fase il glottoteta inizia a codificare un modello semiformale della
lingua che vuole pianificare e ciò che creerà sarà la varietà standard dell’idioma.
Ciò significa che, se la si considerasse naturale, questa variante coesisterebbe
probabilmente insieme a uno o più dialetti. Compito del glottoteta è anche quello di
elaborare un lessico e trovare un modo affinché la sua creazione venga acquisita
dai futuri e ipotetici parlanti. Questi ultimi due passaggi in particolare sono molto
influenzati dalla L1 dell’inventore, cioè dalla sua lingua madre, fenomeno che
avviene inconsapevolmente e che prende il nome di “effetto Bausani” (Gobbo,
2009, P. 73).
A questo punto inizia il secondo momento della creazione delle lingue pianificate,
detto “fase della vita semiologica”, termine suggerito da Ferdinand De Saussure.
L’idioma creato è stato accettato dai parlanti, i quali iniziano a utilizzarlo nella
comunicazione; ciò significa che il glottoteta creatore ha perso ogni potere di
controllo nei confronti della lingua, che “avrà il carattere di trasmettersi in
condizioni che non hanno alcun rapporto con quelle che l’hanno costituito […]. […]
la lingua è entrata nella sua vita semiologica, e non si può più tornare indietro: essa
si trasmetterà per via di leggi che non hanno niente a che fare con le leggi di
creazione” (De Saussure, 1970, P. 42, citato da Gobbo, 2009, P. 74).
Tuttavia, è facile intuire che non tutte le lingue pianificate raggiungono questa fase
31
di vita semiologica; per fare un esempio, è sufficiente pensare a una qualunque
delle lingue create per scopi letterari, come l’alto valyriano. Esso possiede sì
morfologia, sintassi e fonetica, ma non viene parlato se non nel mondo fantastico
per il quale è stato concepito.
Questo discorso però non riguarda esclusivamente questo tipo di lingue: anche
alcune LAI non hanno raggiunto la condizione di vita semiologica, nonostante siano
state concepite per uno scopo ben preciso e reale; un esempio, già menzionato in
precedenza, è il Latino sine Flexione di Giuseppe Peano.
Per tutte le lingue che invece raggiungono la condizione di vita semiologica, il loro
processo di sviluppo non è ancora concluso. È infatti a questo punto che ha inizio
l’arduo compito di diffondere la lingua affinché si crei una comunità di parlanti in
grado di trasmetterla alle generazioni future. È dunque di vitale importanza far sì
che essa raggiunga il maggior numero di parlanti possibile ed esistono vari modi
per cercare di realizzare quest’obiettivo; si possono organizzare congressi, fondare
società che abbiano come scopo proprio quello di diffondere la lingua, redigere
manuali di grammatica nel nuovo idioma per dare la possibilità ai nuovi parlanti di
apprenderla e tradurre testi letterari conosciuti.
Oggigiorno l’avvento di Internet fornisce ai glottoteti desiderosi di diffondere la
loro lingua una grande possibilità di successo, attraverso blog, pagine, siti o video.
Internet si è rivelato utile non solo per la diffusione, ma anche per la creazione di
nuovi idiomi. Infatti, tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, il numero di
persone che proponevano una lingua pianificata, creata come progetto di LAI, per
scopi letterari o ludici, è aumentato sempre di più.
Il 29 luglio del 1991 ebbe luogo il primo raduno di creatori di lingue e venne creato
il primo listserv apposta per loro, che fu chiamato Conlang Listserv. Conlang è un
termine coniato dalla prima radice di constructed (pianificato) e language (lingua)
e ben presto il termine conlang divenne il più utilizzato per riferirsi alle lingue
pianificate (Peterson, 2015, pp. 11-12). Grazie a questa piattaforma e ai vari metodi
per entrare in contatto tra loro, i conlanger, coloro che creano lingue, iniziarono
come mai prima di quel momento a scambiarsi idee, opinioni e consigli per creare e
diffondere i loro progetti.
32
Il processo di sviluppo delle lingue pianificate non è uguale per tutti gli idiomi e
differisce a seconda del motivo per cui essi vengono creati.
Se il glottoteta ha intenzione di fornire ai parlanti che non condividono lo stesso
codice una lingua che permetta loro di comunicare in modo semplice, cioè una LAI,
allora probabilmente il suo progetto sarà di una lingua a posteriori, ovvero basata
su idiomi già esistenti. Il glottoteta dovrà ricordarsi che la sua lingua dovrà essere
piuttosto semplice in modo da poter essere appresa in poco tempo e senza troppe
difficoltà da parlanti provenienti da diverse aree linguistiche. Un glottoteta che
invece avesse il compito, o il desiderio, di creare una lingua pianificata per la
letteratura o lo spettacolo, incontrerebbe ostacoli di tipo diverso. La sua lingua
potrebbe essere creata a priori, cioè senza basarsi su alcuna lingua già esistente,
dato che dovrebbe essere usata da una popolazione immaginaria. Una delle
maggiori sfide però, sarebbe quella di cercare di rendere la lingua il più verosimile
possibile e di legarla alla cultura del popolo fittizio; la lingua infatti è sempre
strettamente connessa all’ambiente culturale e sociale. David Peterson descrive
perfettamente questa situazione quando commenta la creazione della lingua
dothraki per lo show televisivo Il Trono di Spade. Essendo i Dothraki una
popolazione di nomadi piuttosto barbara, gli sceneggiatori richiedevano una lingua
che suonasse “dura”, proprio perché essa doveva in qualche modo rispecchiare la
comunità dei suoi parlanti (Peterson, 2015, pp. 25-26).
Saranno ora analizzate le modalità in cui sono state create due lingue tra loro molto
diverse, proprio per sottolineare le diverse metodologie utilizzate: il celebre
esperanto, una LAI creata per il mondo reale, e l’alto valyriano, creato invece per la
letteratura e il cinema.
2.2.1 Una lingua pianificata per il mondo reale (l’esperanto)
L’esperanto è una lingua pianificata nata come progetto di LAI nella seconda metà
del XIX secolo. Il suo ideatore, il dottor Louis-Lazare Zamenhof, pubblicò
autonomamente, non avendo trovato un editore disponibile a farlo, il suo primo
pamphlet adottando lo pseudonimo di Doktoro Esperanto, da cui deriva il nome
dell’idioma (Couturat & Leau, 2006).
Il testo fu pubblicato nel 1887, ma l’esperanto esisteva già da tempo. Il dottor
33
Zamenhof, infatti, già durante gli anni del ginnasio aveva iniziato a dedicarsi alla
pianificazione di quella che sarebbe diventata in futuro la più conosciuta tra le LAI.
Continuò a sviluppare il suo progetto nel corso dei sei anni di università: non solo
creò lessico e grammatica, ma si dedicò alla traduzione e alla composizione di testi
mentre si esercitava anche a pensare in lingua, arricchendola e perfezionandola.
Come narrato da Zamenhof stesso in una lettera spedita a Nikolai Borovko, la culla
dell’esperanto è la città di Białystok, la stessa in cui egli trascorse l’infanzia. Essa
era abitata da russi, polacchi, tedeschi ed ebrei e il giovane Zamenhof riteneva di
poter risolvere le tensioni presenti grazie alla creazione di una lingua neutra che
facilitasse la comunicazione. Avendo quindi ben presente lo scopo di una lingua
ausiliaria, iniziò a elaborare una grammatica semplificata, dopo aver abbandonato
l’idea iniziale di restaurare una lingua morta risalente all’età classica. Per quanto
riguarda il vocabolario scelse di attingere a quello romano-germanico e slavo,
inserendo molte parole internazionali; questo rende dunque l’esperanto una lingua
a posteriori.
L’alfabeto si compone di 27 lettere, di cui 5 vocali e 22 consonanti, alle quali si
aggiunge la semiconsonante “ŭ”, corrispondente alla u breve. Gli unici dittonghi
previsti sono aŭ e eŭ, mentre tutte le altre vocali vengono pronunciate
separatamente. Ogni fonema può essere pronunciato in un solo modo. L’accento si
trova sempre sulla penultima sillaba. È presente un unico articolo determinativo,
“la”, invariabile sia per genere sia per numero, mentre non sono previsti l’articolo
partitivo né quello indefinito.
Anche il sistema numerico è molto semplice: i numeri cardinali sono invariabili e
conoscendo i termini da “uno” a “dieci”, più “cento” e “mille”, sarà possibile formare
tutti gli altri numeri. È infatti sufficiente elencare ciascuna unità che compone il
numero, in ordine dalla maggiore alla minore; per esempio, 2457 si scrive dumil
(duemila) kvarcent (quattrocento) kvindek (cinquanta) sep (sette). Per formare i
numeri ordinali basta aggiungere la desinenza “a” ai numeri cardinali.
La vocale finale permette di distinguere il ruolo di ciascuna parola all’interno del
discorso:
La “-i” caratterizza i verbi all’infinito; essi sono invariabili per numero e persona,
dunque la coniugazione risulta uniforme. Per poter distinguere i tempi verbali
34
gli uni dagli altri è sufficiente osservare la desinenza: se il verbo termina con “-
as” sarà al presente, con “-is” al passato, con “-os” al futuro, con “-us” al
condizionale e con “-u” all’imperativo o al congiuntivo.
La “-o” caratterizza i sostantivi al nominativo singolare; per formare il plurale è
sufficiente aggiungere una “-j”, mentre per passare al caso accusativo (l’unico
esistente oltre al nominativo), singolare o plurale, è necessario aggiungere la “-
n” al nominativo. Non esistono altri casi, che sono sostituito da preposizioni.
La “-a” caratterizza gli aggettivi al nominativo singolare; essi devono sempre
essere accordati con il sostantivo al quale si riferiscono in numero e in caso,
mentre il genere è invariabile. La formazione del plurale e dell’accusativo
avviene come per i sostantivi.
La “-e” caratterizza gli avverbi derivati, mentre quelli primitivi o le preposizioni
terminano spesso con il dittongo “-aŭ”.
La costruzione della frase non segue regole troppo severe pur non essendo
eccessivamente libera, in modo da evitare sia equivoci che scaturiscono dall’ordine
delle parole, sia l’assenza di eleganza e logica. Generalmente si raggruppano le
parole della stessa proposizione separandole mediante la virgola da quelle di altre
proposizioni; in questo modo esse non s’intrecciano tra loro, dunque non nascono
equivoci.
Di solito l’ordine della frase è soggetto – verbo – complemento oggetto –
complementi indiretti, ma data la quasi assenza di regole è possibile cambiare la
disposizione.
Per la scelta del vocabolario, Zamenhof ha escogitato un modo per renderlo
relativamente semplice e il più internazionale possibile. È riuscito a ridurlo a un
nucleo ristretto di radicali ai quali è sufficiente aggiungere determinati suffissi
invariabili per formare le parole. Questi radicali sono stati scelti secondo il
principio dell’internazionalità, cioè selezionando solo quelli che comparivano più
volte in diverse lingue europee; in questo modo Zamenhof è riuscito a favorire il
maggior numero di parlanti possibile.
I radicali possono essere suddivisi in tre categorie. La prima comprende quelli
internazionali per le lingue europee, si riferiscono per lo più all’ambito scientifico e
sono di origine greca o latina. Nella seconda categoria si trovano i radicali solo
35
parzialmente internazionali; ma comunque condivisi dalla maggior parte delle
lingue europee. Nella terza e ultima categoria si trovano infine i radicali non
internazionali, che Zamenhof ha scelto tra quelli usati dalle persone colte. Ha
inserito anche in questa categoria vari radicali di origine slava o germanica, per
garantire maggiormente la parità tra le lingue. I radicali di origine latina, infatti,
hanno più degli altri carattere di internazionalità e sono quindi molto presenti
nelle prime due categorie; in questo modo Zamenhof ha trattato in modo
imparziale le lingue europee.
Zamenhof era consapevole del fatto che un uomo da solo non può creare una lingua
perfetta e che ogni idioma, anche pianificato, se è utilizzato da una comunità di
parlanti è destinato a cambiare nel tempo. Lasciò quindi che il pubblico utilizzasse
e sviluppasse la lingua, senza pretendere di averne il controllo. Seppur con qualche
difficoltà iniziale, l’esperanto cominciò a diffondersi lentamente a partire dalla
Russia. Dimostra l’interesse verso l’esperanto la fondazione a San Pietroburgo, nel
1892, della società Espero.
Nacque in seguito il primo giornale esperantista, La esperantisto, che assunse un
ruolo fondamentale nella diffusione della lingua.
Per incoraggiarne l’utilizzo vennero pubblicati manuali, traduzioni di classici come
l’Amleto, l’Iliade o le Nozze di Figaro e vari adepti s’impegnarono affinché
l’esperanto si diffondesse il più possibile. Colui che contribuì maggiormente fu
Louis de Beaufront, un filologo molto noto. Egli stava elaborando, grazie a un
lavoro che stava durando da più di dieci anni, un’altra lingua pianificata:
l’adjuvanto, che scoprì essere molto simile all’esperanto. De Beaufront si rese conto
che la sua lingua era meno precisa, per alcuni aspetti, rispetto a quella di
Zamenhof, così la abbandonò per dedicarsi all’esperanto. Grazie a lui l’idioma si
diffuse in Francia, con la fondazione del mensile L’Esperantiste e della Societé Pour
la Propagation de l’Esperanto (Couturat & Leau, 2006).
Dopo più di un secolo, l’esperanto continua ad avere successo e il suo uso non
accenna ad arrestarsi: esistono manuali in varie lingue, riviste, società di
propaganda e siti web, come risulta dal sito della Federazione Esperantista Italiana
(http://www.esperanto.it/).
36
Nonostante l’esperanto abbia riscosso un notevole successo, ha anche ricevuto un
certo numero di critiche. La prima di esse ha come destinatario l’alfabeto. Si
rimprovera all’esperanto di avere troppe lettere accentate, che creano confusione nel
lettore, costituiscono dei suoni difficili da imparare e comportano delle difficoltà
nella scrittura. Per esempio, il fonema corrispondente alla lettera ĥ è arduo da
pronunciare per i francesi. I problemi di questo genere vanificano tutti gli sforzi di
Zamenhof per rendere la lingua il più internazionale possibile. Altre critiche sono
state mosse contro aspetti che in realtà sono più positivi che negativi: alcuni non
hanno apprezzato, per esempio, la distinzione delle parti del discorso che avviene
grazie alla desinenza in finale di parola. Questa è, invece, una caratteristica che rende
la lingua comoda e semplice da imparare perché permette innanzitutto di
riconoscere a colpo d’occhio il ruolo di ciascuna parola nella proposizione e in
secondo luogo di formare le parole in modo meccanico (Couturat & Leau, 2006).
2.2.2. Una lingua pianificata per la finzione letteraria (alto valyriano)
L’alto valyriano è una lingua pianificata da David Joshua Peterson per la serie
televisiva Il Trono di Spade, basata sui libri dello scrittore americano George
Raymond Richard Martin.
David Peterson ha recentemente dato un importante contributo al mondo della
pianificazione linguistica, non solo per aver creato varie lingue, ma anche per
essere uno dei fondatori della Language Creation Society. Si tratta di
un’organizzazione creata per promuovere le lingue pianificate e farle conoscere al
pubblico. Tale società riveste inoltre un ruolo di intermediazione tra coloro che
vogliono avvalersi di lingue pianificate nei loro lavori (che possono essere la
scrittura di libri o di sceneggiature cinematografiche) e chi si occupa di crearle.
Tra le varie lingue create da Peterson, oltre all’alto valyriano e al dothraki, le più
importanti e famose sono l’indojisnen, l’irathient, il castithan e il kinuk’aaz per la
serie televisiva Defiance e lo shiväisith per Thor: The Dark World. A differenza del
dottor Zamenhof, Peterson non ha mai creato un progetto di LAI e i suoi idiomi
sono tutti destinati al mondo fantasy o fantascientifico.
La prima comparsa dell’alto valyriano è avvenuta nel corso della terza stagione
della serie televisiva Il Trono di Spade, nel 2013, mentre il dothraki aveva già avuto
37
il suo debutto nella prima stagione. I produttori David Benioff e Daniel Brett Weiss
affidarono a Peterson il compito di pianificare l’alto valyriano nel 2012, nonostante
lui avesse già iniziato a svilupparne un progetto nel 2009.
Non trattandosi di una LAI, come lo è l’esperanto, Peterson non era legato a
particolari vincoli per quanto riguarda la semplicità e la neutralità; la sua lingua,
dopotutto, non ha né ha avuto, sin dall’inizio, lo scopo di agevolare la
comunicazione tra parlanti di diversa nazionalità. Tuttavia, quello di Peterson non
è stato un lavoro totalmente libero, poiché lo scrittore George R. R. Martin aveva già
creato delle espressioni in alto valyriano che era essenziale rimanessero tali. Per
questo motivo Peterson scelse di iniziare a partire dalla grammatica, nonostante
fosse sua abitudine, come da lui stesso dichiarato in The Art of Language Invention,
cominciare dalla fonologia di una lingua (Peterson, 2015).
Perché potesse lavorare al progetto di elaborazione del dothraki, George Martin gli
aveva fornito un elenco di parole da lui create, per un totale di 56, compresi 24 nomi
propri. Per l’alto valyriano, al contrario, il numero era molto ristretto: 6 parole più un
vasto numero di nomi propri. I due elementi che più hanno aiutato Peterson sono
state due frasi: Valar morghulis e Valar dohaeris, rispettivamente “tutti gli uomini
devono morire” e “tutti gli uomini devono servire”. Queste espressioni hanno
costituito il punto di partenza dell’alto valyriano, la cui pianificazione è iniziata con la
stesura della struttura verbale e del sistema numerico.
Osservando queste due frasi e le rispettive traduzioni, Peterson decise innanzitutto
che la parola valar avrebbe avuto il significato di “tutti gli uomini”, mentre morghulis
e dohaeris avrebbero dovuto corrispondere a “devono morire” e “devono servire”. Sia
l’inglese (all men must die/serve) che l’italiano (tutti gli uomini devono
morire/servire) si servono di più parole per esprimere lo stesso concetto. Pensando
dunque a una traduzione letterale, in alto valyriano mancherebbero degli elementi
linguistici a cui far corrispondere il pronome indefinito “tutti” e il verbo “devono”.
Per essere precisi, in italiano è presente anche l’articolo “gli”, ma Peterson,
influenzato dalla sua lingua madre, non si è posto il problema della sua assenza.
Come spiega egli stesso, decise di rielaborare alcune caratteristiche del latino per
giungere alla soluzione (Peterson, 2015, P. 201). Il motivo per cui scelse proprio il
latino e non un’altra lingua risiede nelle affinità che trovava tra la storia dell’Impero
38
romano e quella della Libera Fortezza di Valyria, nome dell’antico impero valyriano.
La Libera Fortezza, posta nel continente orientale chiamato Essos, era un grande
impero che nei secoli aveva conquistato larga parte del continente, arrivando persino
ad avvicinarsi a quello occidentale. Durante la sua espansione, la Libera Fortezza
riuscì a sottomettere anche l’antico impero Ghiscariano, il quale abbandonò la sua
lingua madre per adottare l’alto valyriano dei conquistatori. Questo portò dunque
alla nascita di diverse varianti di valyriano, che, nel corso di secoli, mutò fino a
diventare quello che è conosciuto come il valyriano imbastardito. Anche riguardo a
questo idioma esistono delle varianti diatopiche, relative al luogo geografico in cui
esso è parlato. Il glorioso impero della Libera Fortezza venne distrutto da un terribile
cataclisma che si abbatté su Valyria, la capitale (Peterson, 2015; García, Martino &
Antonsson, 2014). Questa storia condivide molti aspetti con quella realmente
accaduta dell’Impero Romano, il quale si espanse in quasi tutta l’Europa
conquistando territori e diffondendo l’uso del latino, diventato fattore di coesione
linguistica. Con la caduta dell’Impero, venne meno il centro politico unificatore e la
norma linguistica disgregata iniziò il lungo processo di trasformazione che avrebbe
condotto alla nascita delle lingue romanze. Peterson, resosi conto della somiglianza
con la storia dell’impero di Valyria, decise dunque che la sua lingua pianificata
avrebbe dovuto in qualche modo ricordare il latino.
Iniziando da valar, Peterson sviluppò la categoria grammaticale del numero in
valyriano, creando singolare, plurale, collettivo e paucale, come si può riscontrare
nella tabella che segue.
Numero Accordanza verbo
Logica
Singolare
Uno
Singolare
Un attore
Plurale
Molti
Plurale
Attori multipli non trattati come unità
coesa
Collettivo
Tutti
Singolare
Attori multipli trattati come unità
Paucale
Pochi
Plurale
Numero ristretto di attori non trattati
come unità coesa
Tabella 1: Il numero in alto valyriano – Tabella tradotta da The Art of Language Invention (Peterson,
2015, P. 201)
39
L’individuazione del collettivo è stata necessaria per fare in modo che valar
corrispondesse a “tutti gli uomini”; infatti, così come in italiano, i nomi collettivi
indicano più soggetti che vengono però considerati come un’unità. Il verbo riferito
al collettivo sarà singolare, in quanto il soggetto viene considerato come uno
singolo; per esempio, un nome collettivo in italiano è “stormo”. Con questa parola si
indica ogni uccello del gruppo, ma si dice “lo stormo vola” e non “volano”.
Il paucale, o plurale paucitatis in latino (cioè “plurale di pochi”), è stato aggiunto da
Peterson semplicemente per dare più armonia alla lingua e far sì che fosse più
equilibrata.
La creazione del sistema verbale si rivelò più complicata; Peterson realizzò un
abbozzo di proto-valyriano per rendere il suo compito più semplice. Poté quindi
utilizzarlo come base applicando le evoluzioni che plausibilmente avrebbe subito
una lingua naturale. Da questo idioma primordiale ricavò una radice perfetta e una
imperfetta e sviluppò sei tempi: presente, perfetto, imperfetto, piuccheperfetto,
futuro e aoristo. Quest’ultimo tempo verbale è molto particolare ed è simile a
quello utilizzato nelle frasi di partenza valar morghulis e valar dohaeris.
Per spiegarlo è opportuno presentare un esempio:
Jaohossa rhovis
I cani stanno abbaiando (presente)
Jaohossa rhovisi
I cani abbaiano (aoristo)
La prima frase indica un certo numero di cani che nel preciso momento in cui si
parla stanno abbaiando. La seconda è invece un’affermazione generica e sempre
valida, dunque non è essenziale che mentre si produce la frase ci siano dei cani
intenti ad abbaiare. Il tempo verbale è un aoristo, che viene sostituito, in quanto
mancante, da un presente semplice sia in italiano sia in inglese. Sostituendo il
plurale jaohossa con un collettivo (jaohor), in modo da indicare tutti i componenti
di un gruppo come unità, si pone l’enfasi su quest’ultima; la combinazione di
collettivo e aoristo porta, dunque, al senso espresso da “tutti gli uomini devono
morire/servire”. La traduzione di valar morghulis/dohaeris, tuttavia, è devono
morire/servire e non solo muoiono/servono. Questo poiché il verbo assume un
senso più gnomico, ossia sentenzioso, e la traduzione più appropriata per
esprimere questa lieve variazione di senso è l’aggiunta del verbo dovere. Tuttavia,
40
questo ragionamento è applicabile esclusivamente alla frase valar morghulis, In
quanto la morte è un destino comune a tutta l’umanità; al contrario, non è ovvio
che tutti gli uomini debbano servire. La seconda frase, dunque, assume questo
significato solo in virtù del fatto che essa viene sempre associata a valar morghulis;
le due sentenze sono infatti imprescindibili l’una dall’altra e il loro abbinamento
produce il significato di “devono morire/servire” (Peterson, 2015).
Oltre alla creazione della grammatica, vi sono altri elementi che hanno un ruolo
importante nel processo di formazione di una lingua. Come spiega David Peterson
in un’intervista, i due fattori che influenzano maggiormente una lingua sono la
topografia dell’area in cui l’idioma è parlato e il livello di tecnologia posseduto dai
parlanti (Peterson, 2014). Nel capitolo uno del presente lavoro è riportato un
esempio che dimostra quanto una lingua venga influenzata dalla sua appartenenza
a un’area geografica. Si tratta del caso riguardante le differenze lessicali tra il
piemontese e il siciliano. Il livello tecnologico, invece, è comune a tutte le
popolazioni del mondo fantastico creato da Martin, popolazioni che vivono in una
sorta di Medioevo. Costituiscono l’unica eccezione i Dothraki, i quali si trovano in
una condizione storica ancora più arcaica.
Nella creazione dell’alto valyriano, Peterson aveva dunque il compito di tener conto
dei due fattori sopra citati; tuttavia, come dichiara egli stesso, il compito non era
semplice in quanto il materiale a sua disposizione era scarso. Tale mancanza era
dovuta a due motivi: innanzitutto, la storia narrata nei libri di Martin si svolge circa
tre secoli dopo la fioritura dell’Impero della Libera Fortezza, dunque l’autore non si
è preoccupato immediatamente di creare nei particolari uno scenario di
quell’epoca. In secondo luogo, dato il divario storico, tutti i parlanti nativi dell’alto
valyriano sono morti, portando con sé nell’oblio la loro cultura. L’unica discendente
diretta dell’antico impero è Daenerys Targaryen, la quale, nonostante parli ancora
il puro alto valyriano, è distante dalla sua cultura originaria. Per creare una lingua
che risultasse convincente, Peterson ha dunque cercato di tenersi a debita distanza
dalla formazione di parole che descrivessero la vita quotidiana, in quanto non era a
conoscenza di come essa si svolgesse.
La situazione è invece diversa per quanto riguarda le lingue discendenti dall’alto
valyriano, che potrebbero essere considerate simili alle lingue romanze, discendenti
41
dirette del latino. Il basso valyriano, o valyriano imbastardito, viene parlato nelle
città libere del continente orientale e nelle tre città della cosiddetta Baia degli
Schiavisti: Meereen, Astapor e Yunkai, nelle quali si svolgono varie scene della serie
televisiva. Il compito di Peterson è dunque stato quello di creare anche una versione
bassa del classico valyriano, che potesse essere adatta ai parlanti di queste zone. Ha
avuto quindi più materiale a sua disposizione, per poter sviluppare l’astaporiano e il
meerense. Come da lui stesso dichiarato, il basso valyriano parlato dagli schiavisti
ricava buona parte del suo vocabolario dall’alto valyriano, quindi è stato sufficiente
creare una plausibile evoluzione dei termini partendo dalla lingua antica. La maggior
parte delle parole riguardanti il commercio degli schiavi, invece, è stata ripresa dal
ghiscari, una lingua antica quanto l’alto valyriano che veniva parlata nella zona
dell’impero ghiscariano (Peterson, 2014; García et al. 2014).
2.2.3 Confronto tra i due processi
I processi di pianificazione linguistica sviluppati dal dottor Zamenhof per
l’esperanto e da David Peterson per l’alto valyriano sono profondamente differenti.
Questa disuguaglianza riguarda diversi ambiti ed è dovuta a diversi fattori.
Innanzitutto le due lingue sono state sviluppate per motivi diversi e dunque è
logico che il risultato ne abbia risentito. Siccome l’esperanto è stato
originariamente pensato come un progetto di lingua ausiliaria internazionale,
doveva rispettare determinati canoni. Era essenziale che la lingua risultasse
relativamente semplice, immediata e il più internazionale possibile. Per questo
motivo Zamenhof creò i radicali per il suo vocabolario secondo il principio
d’internazionalità. Peterson, al contrario, non aveva un simile vincolo a cui
sottostare, in quanto la sua lingua era destinata a una popolazione immaginaria.
Nelle varie fasi di creazione dell’alto valyriano, infatti, non si nota la volontà del
glottoteta di valorizzare una serie di altre lingue che concorressero all’elaborazione
dell’idioma pianificato.
Il fatto di aver utilizzato un determinato numero di lingue come base, fa
dell’esperanto una lingua a posteriori, senza alcun elemento creato a priori. L’alto
valyriano, così come altre lingue pianificate da Peterson, è invece una lingua mista,
in parte a posteriori in parte a priori.
42
Per esempio la parola che indica “gatto” in alto valyriano è kēli: l’origine di questo
termine non è in alcun modo legata a nessuna lingua, in quanto Keli è
semplicemente il nome del gatto di David Peterson (Peterson, 2015). In una LAI
non è possibile inserire elementi di questo tipo, o comunque è fortemente
sconsigliato, in quanto è necessario cercare di agevolare il più possibile i parlanti
creando vocaboli non totalmente nuovi, ma che assomiglino a quelli di una lingua
esistente.
Eccezion fatta per alcuni elementi, quali kēli, anche l’alto valyriano si basa su una
lingua naturale, cioè il latino, dunque può essere considerata una lingua anche a
posteriori.
L’operazione è complicata poiché la lingua utilizzata come base è antica ed è caduta
in disuso anche a causa della sua complessità. L’esperanto, al contrario, ha come
base lingue vive e più semplici.
Un altro elemento di differenza è costituito dal fatto che Zamenhof non doveva
badare alla creazione di un contesto culturale nel quale fare sviluppare la sua LAI,
in quanto esso già esisteva. È invece ciò di cui ha dovuto in parte occuparsi
Peterson. La cultura dei parlanti gioca un ruolo fondamentale nel risultato finale
della loro lingua (Peterson, 2014). I fenomeni culturali, sociali, politici e storici si
intrecciano strettamente ai fenomeni linguistici. Per David Peterson e tutti quei
glottoteti che si dedicano alla pianificazione di idiomi per mondi fantastici, è
dunque sempre difficile dover pensare a un contesto culturale all’interno del quale
inserire la propria creazione.
Il contesto culturale e storico di riferimento delle due lingue costituisce un’altra
differenza importante. L’esperanto possiede molti più vocaboli rispetto all’alto
valyriano e questo per due motivi. Innanzitutto, la lingua pianificata da Peterson
viene parlata, essenzialmente, in alcune scene della serie televisiva e non nella vita
quotidiana. Il suo lessico è ridotto rispetto a quello dell’esperanto che possiede un
numero maggiore di vocaboli per permettere ai parlanti di avere tutti gli elementi
di cui hanno bisogno per esprimersi. Inoltre, essendo l’alto valyriano utilizzato in
un’epoca storica corrispondente al Medioevo, mancherà di termini moderni,
certamente presenti invece nell’esperanto.
43
In conclusione, si può affermare che il processo di pianificazione di una lingua non
è sempre uguale a se stesso, ma può variare di volta in volta e dipende dalla
tipologia di idioma che si ha intenzione di creare. Qualunque tipo di pianificazione
linguistica presenta varie difficoltà in diversi ambiti, dunque non è possibile
individuarne una più semplice delle altre. Un glottoteta che vuole creare un idioma
per un mondo fantastico risentirà della mancanza di un contesto storico-culturale,
mentre se dovesse creare una LAI sarebbe vincolato a una serie di regole piuttosto
ferree.
Il solo aspetto che accomuna, in un certo senso, tutti i tipi di pianificazione è la
necessità di conoscere alcune nozioni di base di linguistica e glottologia; tra di esse,
per esempio, è importante sapere come e perché avvengono i mutamenti nelle
lingue, i meccanismi che regolano la morfologia, la sintassi e la fonologia.
Nella pratica, tutti possono pianificare un idioma, anche senza conoscere nei
dettagli tutte le nozioni di cui sopra; tuttavia, più conoscenze si posseggono, più la
lingua risulterà verosimile.
44
CAPITOLO 3
L’alto valyriano e il latino
3.1 Evoluzione delle due lingue
Nel corso del primo capitolo, è stata fornita una definizione di “lingua pianificata”; io
vari tipi di lingue pianificate sono poi stati classificati in base allo scopo della loro
creazione.
Nel secondo capitolo, sono state presentate le analogie e le differenze tra il
processo di sviluppo di una lingua naturale e quello di una lingua pianificata. In
particolare, sono stati analizzati i procedimenti che si devono rispettare per creare
una LAI e un idioma per la finzione letteraria.
In quest’ultima parte della trattazione, sarà proposto un altro paragone tra una
lingua naturale e una pianificata. Non sarà più preso in considerazione il
procedimento di creazione perché lo scopo sarà quello di capire se esse possano
essere poste sullo stesso livello. La lingua naturale che sarà presa in esame è il
latino, che oggi costituisce la base da cui hanno avuto origine le lingue romanze, o
neolatine, tra cui l’italiano, il francese, lo spagnolo o il rumeno. Il latino è una lingua
molto antica, un idioma naturale, e deriva da un’altra lingua antecedente
denominata indoeuropeo. Da quest’idioma primordiale, si ritiene che derivino le
lingue indoeuropee che a loro volta si suddividono in famiglie. Esse sono il latino e
le lingue romanze, il greco, le lingue germaniche, le lingue celtiche, le lingue
anatoliche, l’albanese, il tocario, le lingue slave, l’indoiranico, le lingue baltiche e
l’armeno. Tuttavia, l’indoeuropeo è una protolingua, ossia un idioma non attestato,
ricostruito dagli studiosi; ciò significa che nella realtà probabilmente non era
esattamente così com’è risultato dalle ricerche, ma presentava sicuramente delle
caratteristiche linguistiche diverse, che però non ci è dato conoscere. Per arrivare
al protoindoeuropeo gli studiosi si sono serviti del metodo storico-comparativo,
45
nato nell’Ottocento in Europa; esso consiste nell’analizzare e confrontare tra di loro
le lingue standardizzate, ricercando le analogie lessicali, morfologiche o fonetiche
riconducibili a un’unica matrice. Tuttavia, procedendo in questo modo, gli studiosi
non hanno considerato le varianti diacroniche, tipiche di ogni lingua, rendendo il
risultato omogeneo e non differenziato. Il protoindoeuropeo, infatti, è piuttosto
uniforme e non presenta al suo interno le solite varianti che una lingua dovrebbe
avere. Infatti i linguisti, che hanno ricostruito teoricamente la protolingua, non
hanno potuto confrontarsi con una lingua realmente utilizzata dai parlanti e con le
variazioni che essi sempre introducono (Luraghi, 2006/2013).
Oltre all’indoeuropeo, sono state ricostruite altre protolingue e secondo alcuni
studiosi esse potrebbero discendere da un’unica lingua originaria. Tuttavia, E
tratta di una questione sulla quale c’è molto dibattito, in quanto non sono ancora
stati trovati elementi sufficienti a creare consenso internazionale. Esistono due
teorie che spiegano in che modo questa ipotizzata lingua originaria si sia diffusa e
in seguito evoluta; la prima è la teoria della sostituzione. Essa ipotizza che delle
comunità di ominidi evoluti, in possesso di un sistema di comunicazione
linguistico, abbiano causato il confinamento di altre comunità meno evolute e con
sistemi di comunicazione più arretrati sostituendosi a esse. La seconda teoria è
invece quella del candelabro, secondo la quale possono essere avvenute delle
ondate colonizzatrici da parte di ominidi evoluti. Essi si sarebbero integrati con
comunità disperse in seguito a precedenti migrazioni; in questo modo degli
elementi di comunicazione più progrediti si sarebbero innestati su matrici
prelinguistiche preesistenti. (Romano & Miletto, 2010).
La lingua pianificata che verrà analizzata sarà invece l’alto valyriano di David
Peterson. A differenza della maggior parte degli idiomi pianificati per la finzione
letteraria, l’alto valyriano può essere considerato in un certo senso simile alle
lingue naturali; esso, infatti, è stato creato immaginando un suo processo evolutivo
con conseguenti mutamenti linguistici. Il glottoteta ha avuto il compito di creare
non solo la lingua standard, ma anche una sua variante più bassa e più recente
rispetto alla prima, parlata nel continente orientale nel periodo storico in cui si
svolgono le vicende della serie televisiva (Peterson, 2014). Tuttavia, Peterson non
si è limitato ad applicare delle evoluzioni plausibili alla lingua antica per arrivare a
46
quella più recente; in The art of Language Invention egli scrive di un alto valyriano
primordiale, del quale sembra abbia elaborato alcune parti per facilitare la
creazione della varietà standard. In particolare, quando spiega il processo con il
quale ha creato il sistema verbale, afferma di aver immaginato dei mutamenti
fonetici in alcuni verbi, per creare in seguito quelli definitivi (Peterson, 2015).
Si tratta di un sistema utilizzato anche da altri glottoteti, tra cui Tolkien, che
consiste nel creare una sorta di protolingua in modo da semplificare la formazione
dell’idioma che si ha l’intenzione di pianificare. In questo modo lo si rende anche
più complesso e verosimile, in quanto è possibile creare una famiglia di lingue
collegate tra di loro. Grazie alla protolingua, la pianificazione linguistica risulta più
semplice non solo perché è presente un sistema di radici da usare per creare nuovi
termini, ma anche perché è possibile formulare nuove parole basate sui regolari
mutamenti fonetici.
Potrebbe sembrare un processo che vada a ritroso all’infinito, considerando che
ogni lingua deriva da un’altra, ma una protolingua creata per un idioma
immaginario ha caratteristiche simili a una dalla quale derivano le lingue terrestri.
Esse sono ricostruzioni meramente ipotetiche e, in quanto tali, sono vaghe e
costituiscono solo lo scheletro della lingua vera e propria. Una proposta
interessante è offerta da Jeffrey Henning, il quale suggerisce di utilizzare come
protolingua una lingua già esistente, come ha fatto lui creando una lingua per una
storia di fantascienza (Henning, 1995).
3.1.1 Dal latino alle lingue romanze
In Italia antica, intorno al 500 a. C., erano presenti molti popoli di origini, usi e
costumi, lingue e gradi di civiltà diversi gli uni dagli altri. Essi possono essere
suddivisi in due grandi gruppi: i popoli mediterranei, stanziali e presenti sul
territorio della penisola da secoli e secoli, e i popoli indoeuropei, arrivati intorno al
1400 a. C., provenienti dall’Europa centrale e orientale. Appartenevano al gruppo
mediterraneo i Reti, i Liguri, gli Etruschi, i Piceni, i Sardi e i Sicani. Si presume che
queste popolazioni parlassero delle lingue molto diverse le une dalle altre.
Appartenevano invece al gruppo indoeuropeo in Italia i cosiddetti Italici, cioè i
Latini, gli Equi, i Volsci, i Sabini, gli Umbri, i Campani, i Sanniti, i Lucani, i Bruzi, gli
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Japigi i Messapi, i Veneti e i Greci, detti anche Italioti. I popoli indoeuropei, a cui
appartengono anche gli Ittiti, gli Armeni, gli Iranici e gli Indiani, parlavano lingue
con caratteristiche simili. In Italia meridionale, fatta eccezione per la Sicilia, E
parlava l’osco, imparentato con l’umbro, diffuso invece nel centro Italia. Altre
lingue parlate nella penisola erano il siculo e il sardo, il messapico, l’etrusco, il
celtico, il veneto, il retico, il ligure e il greco (Gensini, 1988/1992).
Con l’espansione romana, in Italia avviene un’unificazione giuridica e politica e i
Romani attuano una politica accentratrice, per cui Roma diventa il centro
nevralgico di un impero forte e coeso dal punto di vista politico, militare e
linguistico. Nonostante il carattere accentratore di questo popolo, il latino non
viene imposto alle popolazioni conquistate, perché i Romani favoriscono
l’autonomia linguistica dei popoli sottomessi per consolidarne la fiducia.
“Sappiamo con certezza che i Romani non imposero mai con la forza o per obbligo
di legge l’uso del latino” (De Mauro, citato da Gensini, 1988/1992, P. 40). Tuttavia,
esso acquista un elevato prestigio in quanto lingua della forza egemone. Parlare
latino è considerato un privilegio, un segno di innalzamento sociale, di
appartenenza allo strato sociale elevato. Questa lingua, dunque, inizia a diffondersi
nonostante la sua imposizione non fosse, all’epoca, un preciso intento dei Romani.
Il suo apprendimento richiede tempi molto lunghi; i popoli mediterranei parlavano
lingue diverse tra loro e ciascuno, con i propri tempi, ha dovuto adattarsi al nuovo
idioma. Il latino, lingua del conquistatore, si sovrappone alle lingue italiche
preesistenti, è imposto dall’alto, accettato e condiviso dalle popolazioni
conquistate, e costituisce il superstrato linguistico. Alla base rimangono le lingue
delle varie etnie, che fungono da sostrato, e che influenzano e condizionano il
latino (Gensini, 1988/1992). Ogni popolo parla latino con il proprio accento e
questo porta alla creazione di varianti che con il tempo possono trasformare
profondamente la lingua; i parlanti farciscono il latino con parole appartenenti al
proprio idioma, aumentando ancora di più le differenziazioni. Il latino, lingua di
superstrato, è quindi un sistema linguistico unitario che presenta, al suo interno,
delle differenziazioni. La diversificazione è dovuta anche all’uso e ai contesti. Si
sviluppano un latino militare, uno filosofico, uno commerciale, uno politico, uno
proprio degli intellettuali, e uno colloquiale e quotidiano, informale, parlato dalla
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plebe. Si possono individuare delle varietà dal punto di vista verticale, cioè un
latino colto, uno colto informale e uno popolare (Gensini, 1988/1992).
Essendo presente un sostrato composto da vari idiomi, molte parole della lingua
italiana odierna, discendenti dal latino, derivano a loro volta dalle lingue prelatine
e grazie agli studi dei linguisti è stato possibile risalire alla loro origine. È
interessante notare come queste parole siano tratte dall’ambiente in cui era
utilizzata la lingua a cui appartenevano; per esempio, la parola “betulla” ha origini
celtiche. Inoltre, da ogni lingua il latino si è arricchito di termini usati in ambiti
specifici, a seconda del prestigio di cui queste godevano. Al contrario degli altri
popoli italici, gli Etruschi e i Greci costituivano due civiltà dal livello culturale molto
alto, dunque le loro lingue hanno trasmesso al latino una terminologia legata per lo
più all’ambito civile e politico, commerciale, artistico e filosofico.
I collegamenti con queste lingue del passato non sono solo costituiti da termini
derivanti da esse, ma anche da alcuni modi di parlare che si sono mantenuti nei
secoli. Si sono trasmessi alcuni fenomeni fonetici, come, per esempio, il tipico
suono [k] aspirato toscano tra vocali, così come il suono [si] che si trova nei dialetti
del nord Italia. La presenza delle lingue italiche si può anche riscontrare nella
toponomastica: “Ravenna” ha origini etrusche e i nomi terminanti in –asco in
Liguria discendono da nomi etnici liguri dell’epoca prelatina; dall’etrusco i romani
hanno tratto i suffissi “–enna”, “-ina” e “–na”.
Con la caduta dell’impero romano, avvenuta nel 476 d.C., le varianti presenti in
Italia hanno la possibilità di diffondersi, in quanto il centro coeso rappresentato da
Roma viene meno e con esso anche la norma latina. Il disfacimento dell’impero
segna anche una grande crisi politica, che porta il popolo ad allontanarsi dalla
cultura, causando fenomeni come l’analfabetismo e, in generale, una
semplificazione del latino. In particolare, aumenta il divario già esistente tra lingua
scritta e orale, che diventeranno due sistemi distinti. Mentre il latino scritto
rimarrà fedele alla norma classica e sarà più duraturo e molto meno incline ai
mutamenti, il latino orale subirà delle evoluzioni profonde che si differenzieranno a
seconda della zona; è infatti proprio da esso che derivano le lingue romanze (o
neolatine).
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Molti altri cambiamenti derivano dai popoli che hanno concorso a causare la
disfatta dell’impero romano: i popoli germanici. Man mano che essi entrano a fare
parte del panorama sociale, politico e culturale dell’ex impero, molti dei loro
termini s’inseriscono nella lingua latina, già profondamente differenziata. Questo
fenomeno si è verificato in due fasi; la fase antica corrisponde al periodo storico in
cui i barbari vengono arruolati nell’esercito romano e iniziano a partecipare alla
vita politica. A questo periodo si fanno risalire i primi influssi germanici. Il latino
acquisisce termini relativi agli animali che si trovano nel nord Europa, come alces o
taxo; parole che designano usi e costumi propri delle popolazioni nordiche, come
“vanga”, “arpa”, “stalla”, “borgo” o “fresco”. Un cambiamento lessicale risalente a
questo periodo è l’introduzione del termine werra, da cui deriverà “guerra”, che
prende il posto di bellum; a oggi della parola latina rimane solo l’aggettivo “bellico”.
Segue una seconda fase risalente ai primi insediamenti barbari in Italia, che si
suddivide in tre momenti: inizialmente giungono nella penisola gli Ostrogoti, che
immettono nella lingua molti vocaboli relativi alla guerra. Alcuni esempi sono
“elmo”, dal goto hilms, o “albergo”, da haribergo, che denomina l’alloggio per i
militari. Altri termini apportati da questa popolazione sono “fiasco”, da flaskun,
“stecca” da stika e “nastro” da nastilo; queste tre parole in particolare si ritiene che
derivino specificamente dall’ostrogoto in quanto si trovano solo in italiano.
Particolarmente interessante, e sempre risalente a questo periodo, è l’innesto di
prefissi latini come ad, cum o ex su basi ostrogote, che producono parole come
“arredare”, “corredare” e “smagare”.
In un secondo momento giungono in Italia i Longobardi, i quali si stanziano a
macchia di leopardo in quasi tutta la penisola, in particolar modo al centro-nord. IL
loro lingua è molto rozza in confronto al latino, che essi scelgono di mantenere
come lingua scritta. Dal punto di vista del parlato, la lingua del popolo germanico
conquistatore e quella del popolo latino conquistato si fondono, soprattutto dopo
la conversione al cattolicesimo da parte dei Longobardi, avvenuta nel 603. Essi
assimilano man mano il latino, apportandovi parole dalla loro lingua. Troviamo
degli esempi nella toponomastica (basti pensare a “Lombardia”, da “Longobardia”).
La parola “gruccia”, già analizzata nel capitolo precedente, viene introdotta dai
Longobardi ed è, infatti, diffusa solo nel nord e nel centro Italia.
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Il terzo momento della seconda fase vede l’arrivo dei Franchi, che si stabiliscono
anch’essi nel centro-nord italiano. Da questa popolazione giungono molti termini
riguardanti l’organizzazione della società, tra cui “feudo”, “vassallo”, di origine
celtica, “ligio” e “barone”, dal germanico baro, uomo libero.
Oltre alle popolazioni germaniche, c’è un altro responsabile dei mutamenti che
hanno portato il latino a volgarizzarsi sempre di più, per poi differenziarsi nelle
varie lingue romanze: il Cristianesimo. La sua lingua originaria è l’ebraico,
sostituito poi dal greco, che diviene dunque la lingua ufficiale della Chiesa; il latino
lo diventa solo in un secondo momento, per poter diffondere la Parola tra le masse
popolari nel momento della diffusione del Cristianesimo in Occidente. Il
Cristianesimo ha un ruolo fondamentale nella nascita delle lingue romanze e a esso
si devono molti termini utilizzati ancora oggi, non solo in ambito religioso. Molti
vocaboli hanno infatti perso il loro riferimento alla religione nel passaggio dal
greco al latino; per esempio “parola” deriva dal latino parabola che deriva, a sua
volta, dal greco parabolè, ma inizialmente questi termini stavano a significare
“parola divina”; il significato è poi diventato “parola” nel senso di “vocabolo”. Al
contrario, parole come paganus o pius acquistano un significato religioso, mentre
originariamente significavano rispettivamente “non soldato” (successivamente
inteso come “non soldato di Cristo”) e “onesto” (che ha amplificato il proprio
significato a “religioso”). Infine, il Cristianesimo introduce un numero elevato di
grecismi, essendo il greco la sua lingua originaria; tra questi vocaboli si trovano
ecclesia, monachus o basilica. Alcune parole hanno subìto invece una doppia
evoluzione, poiché in greco erano dei calchi dall’ebraico; tra queste vi è “angelo”,
dal latino angelus che traduce il greco ànghelos, a sua volta derivante dall’ebraico
mal’ākh, che significa “messaggero”.
I fenomeni linguistici dovuti a reciproche influenze tra le lingue riguardano non
solo la sfera orale, ma anche quella scritta. Nel 347 Girolamo traduce la Bibbia in
latino, a partire dalle lingue originarie, l’ebraico e il greco. La sua versione viene
definita “Vulgata”. Girolamo utilizza un latino scritto vicino alla lingua del popolo
perché considera il fattore educativo più importante della correttezza
grammaticale o dello stile. In questo modo contribuisce ai mutamenti che
avvengono anche nella lingua scritta (Gensini, 1988/1992).
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Entrando maggiormente nei particolari della lingua e tralasciando le differenze di
evoluzione a livello regionale, si possono individuare una serie di mutamenti
fonetici che hanno interessato in generale il latino in tutta la penisola. Vi sono tre
ragioni principali per cui questi cambiamenti avvengono:
La semplificazione articolatoria; essa causa la perdita di vocali, consonanti o
sillabe. Nel momento in cui si parla la lingua in modo informale, si tende a
elidere, o modificare, alcune parti di parole in modo da pronunciare le stesse in
modo più veloce e semplice. A lungo andare, questi errori sporadici si
mantengono e la pronuncia cambia anche in un contesto formale.
L’interferenza acustica; essa avviene nel momento in cui la distinzione di due
fonemi vicini non è percepita facilmente, così uno dei due finisce per
sovrapporsi all’altro che invece scompare. Nello scritto, però, non è sicuro che lo
spelling si adatti a questo cambiamento; nella lingua ormai evoluta, perciò, sarà
possibile trovare parole scritte in modo diverso da come si pronunciano, che
rappresentano un retaggio della lingua antica.
L’innovazione; essa avviene in modo graduale e i parlanti se ne rendono conto
dopo un certo lasso di tempo. Un esempio è il Grande Spostamento Vocalico
(Great Vowel Shift) che ha causato il cambiamento radicale della pronuncia delle
vocali nella lingua inglese (Peterson, 2015).
Uno dei primi cambiamenti fonetici nel passaggio dal latino al volgare è la perdita
della quantità vocalica. In latino, per distinguere le vocali, si utilizza anche la loro
lunghezza, che permette di distinguere i significati di vocaboli apparentemente
identici. La pronuncia, breve o lunga, che si ottiene soffermandosi di più o di meno
sulla vocale, permette di individuare, per esempio, due [o], o due [e], diverse tra
loro. Per esempio, la parola ŏs (o breve) significa “osso”; la parola ōs (o lunga)
significa “bocca”. Siccome non tutte le popolazioni in Italia riconoscono tali
distinzioni, poco a poco le vocali subiscono un profondo mutamento e si
trasformano in vocali aperte o chiuse (eccezion fatta per la a).
Si è inoltre verificata la sincope della vocale postonica interna, ovvero la vocale che
si trova dopo quella accentata all’interno di una parola è stata poco a poco
eliminata. Ecco dunque che da speculum si passa a speclum, da cui “specchio”
(Gensini, 1988/1992); sarebbe possibile proporre innumerevoli altri esempi, In
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quanto si tratta di un fenomeno molto diffuso che ha interessato un numero
altissimo di parole.
Un terzo cambiamento è il passaggio da iato a yod (Gensini, 1988/1992); con iato
s’intende “un gruppo di due vocali consecutive pronunciate in modo distinto e
appartenenti a due sillabe diverse” (Iato, 2012). Lo yod, al contrario, è una
semiconsonante e si pronuncia con una sola emissione sonora. Due esempi di
questo mutamento sono il passaggio da caseum (in cui ae è iato) a casium (la i e la u
vengono pronunciate come se fossero una sola lettera, con una sola emissione di
voce) o il passaggio da alea ad alia.
Un altro fenomeno di cambio vocalico è il passaggio dalla u alla o, come da columna
a colomna, divenuto poi “colonna”.
La monottongazione è un altro fenomeno fonetico diffuso che avviene quando un
dittongo o un trittongo si trasformano in una vocale semplice, come nel caso di
aurum divenuto “oro”.
Infine, per quanto riguarda le vocali, è avvenuto uno spostamento d’accento nelle
parole con i o e posizionate in penultima sillaba con la presenza di una vocale
breve, come si può notare in filīolus che passa a filiólus, trasformatosi in figliolo.
Anche il sistema delle consonanti ha subìto vari mutamenti; alcune di esse che si
trovavano originariamente alla fine delle parole sono scomparse, come flores,
trasformatosi in “fiore”. Altre lettere che si trovavano in diversi punti sono cadute
in disuso: è il caso della “h” aspirata, scomparsa da parole come adhuc, diventata
“aduc” e della v intervocalica sostituita spesso dalla u (per esempio cantavit si
trasforma in cantaut e in seguito “cantò”). Le lettere t e d seguite da yod hanno
subito un processo di assibilazione, che consiste nel mutamento di una consonante
occlusiva in una sibilante. Per esempio, medium si è trasformato in “mezzo” e
nationem in “nazione”. Un altro cambiamento di pronuncia è avvenuto per le lettere
c e g; inizialmente erano delle occlusive velari, ma si sono trasformate in palatali,
dunque la loro pronuncia si è addolcita. Infine, in molte parole è avvenuta una
confusione tra la b e la v, come nel caso di alveus trasformatosi in albus da cui
deriva “bianco”, o plevis divenuto plebes.
Anche la morfologia e la sintassi sono state interessate da importanti mutamenti;
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in generale si sono semplificate come conseguenza del calo della cultura e della
ricomparsa dell’analfabetismo. Innanzitutto è da segnalare la scomparsa del genere
neutro, che lascia solo il maschile e il femminile; le parole che prima erano neutre
diventano maschili (per esempio “il mare” oggi è maschile, ma un tempo era
neutro), ma alcuni neutri plurali si trasformano in femminili (da labrum derivano
“il labbro” e “le labbra”). Il cambiamento più noto è la scomparsa dei casi, che ha a
sua volta causato altri mutamenti, poiché, per sostituire le desinenze, è stato
necessario creare degli elementi aggiuntivi per indicare il valore semantico di una
parola all’interno della frase. Sono dunque nate le preposizioni articolate, io
pronomi, i dimostrativi e gli articoli determinativi e indeterminativi; essi
discendono dai dimostrativi, che con l’abbandono dei casi hanno viso indebolirsi la
loro funzione. Ille si trasforma in “il”, da unus si sviluppa “un”. Inoltre il sistema
verbale si è semplificato.
Nonostante questi cambiamenti abbiano interessato in generale tutta la zona
latina, bisogna considerare che sono sempre esistite differenze diatopiche, dovute
alla presenza di popolazioni diverse stanziate nei vari luoghi; tali differenze si sono
accentuate nel corso del processo di trasformazione del latino.
Nonostante i grandi cambiamenti comuni, l’evoluzione del latino ha prodotto non
una sola lingua, bensì l’insieme delle lingue romanze, o neolatine, che
comprendono anche i dialetti italiani. In Italia, nel IV secolo, si possono distinguere
cinque zone di latinità che presentano, dal punto di vista linguistico, delle
differenze considerevoli le une dalle altre. Partendo dal nord, si trova una zona di
latinità settentrionale, che comprende Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia-
Romagna e Friuli: queste regioni hanno subito forti influenze galliche. Sempre al
nord Italia si trova una zona di latinità cosiddetta euganea: essa comprende il
Veneto che, pur trovandosi nel settentrione, non ha subìto influenze dalle lingue
galliche. Poco più a sud, vicino al centro Italia, si contraddistingue la zona di latinità
toscana; questa zona è molto importante per il futuro sviluppo della lingua italiana,
in quanto il dialetto toscano è, tra tutti, quello rimasto nei secoli più vicino al latino
classico e quello che funge da base per l’italiano letterario prima e poi per l’italiano
standard, parlato oggi. Nella valle del Tevere e verso l’Adriatico si trova una zona di
latinità mediana, la cui lingua è più vicina ai dialetti del sud e presenta influenze
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umbre. Infine, nel sud si trova una zona di latinità meridionale, caratterizzata però
da alcuni fenomeni linguistici particolari. Nell’Italia del sud sono infatti presenti
delle isole di grecità, sopravvissute probabilmente alla romanizzazione. Inoltre,
rappresenta un caso particolare il Salento, dove viene mantenuta una tradizione
linguistica messapica non essendo il luogo mai stato raggiunto dai Sanniti; per
questo motivo le pronunce sono tendenzialmente più conservative e rendono
quindi il dialetto di questa zona più vicino a quello toscano, rispetto a quelli
meridionali (Gensini, 1988/1992).
3.1.2 Dall’alto valyriano al basso valyriano
Fino a ora si è parlato di basso valyriano in generale, ma è opportuno fare alcune
distinzioni importanti. Mentre l’alto valyriano originario era un sistema linguistico
unitario, il basso valyriano si divide in tre gruppi, che corrispondono alle zone in
cui ognuno di essi è parlato. Il valyriano settentrionale è parlato nelle città di
Braavos, Lorath, Pentos, Qohor e Norvos (segnate in blu nella mappa che segue); il
valyriano meridionale è parlato a Myr, Tyrosh, Lys e Volantis (segnate in giallo nella
mappa); infine, il valyriano ghiscariano è parlato ad Astapor, Yunkai e Meereen
(segnate in rosso nella mappa), le tre città della baia degli schiavisti; questa zona
corrisponde all’antico impero di Ghis, che fu distrutto e conquistato dai Valyriani
(Valyrian Historical Linguistics, 2016).
Il fatto che da una lingua unitaria si siano sviluppate tutte le varianti sopra elencate
è una conseguenza dei fatti storici, che hanno una forte influenza sulle lingue.
Il primo avvenimento che causa l’inizio dei cambiamenti è la conquista dell’impero
di Ghis da parte dell’impero della Libera Fortezza, che distrugge la capitale
ghiscariana Vecchia Ghis. A questo punto, la cultura valyriana s’impone su quella
ghiscariana e la conseguenza è la sostituzione della lingua stessa. Questo processo,
tuttavia, richiede del tempo, in quanto sono necessarie almeno tre generazioni
perché una lingua scompaia del tutto in una singola famiglia. Prima che il
ghiscariano sia del tutto sostituito dal valyriano, passano circa cinque o sei
generazioni. Mentre i romani non avevano imposto l’uso del latino ai popoli
conquistati, si pensa che fosse un preciso intento dei Valyriani arrivare a diffondere
il loro idioma in modo da poter facilitare gli scambi in tutto il loro vasto impero. Il
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Figura 2: Mappa di Essos con le città libere e Valyria – Immagine reperita da Google immagini e
modificata da me
ghiscariano, tuttavia, si comporta all’incirca come le lingue dell’Italia antica;
scomparendo, esse lasciano in eredità alla lingua egemone alcuni dei loro vocaboli.
Ed ecco che alcuni termini ghiscariani vengono immessi nell’alto valyriano, che
tuttavia mantiene la sua forma grammaticale intatta. I territori conquistati
acquisiscono il valyriano, lingua importante perché utilizzata dalla forza egemone e
imposta dalla classe dominante.
Il Disastro di Valyria, causato da un cataclisma, segna un punto di rottura con i
territori conquistati dall’impero in quanto il suo centro nevralgico viene a mancare.
Da questo momento il valyriano, parlato nelle varie città dell’impero, inizia a
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differenziarsi sempre di più, fino a trasformarsi in varie derivazioni della lingua
madre che si distinguono le une dalle altre. Nella Baia degli Schiavisti, l’unico luogo
fino a questo punto della serie televisiva in cui si è sentito parlare il basso valyriano,
si creano quindi tre varietà corrispondenti alle tre città maggiori: Astapor, Yunkai e
Meereen. Mentre astaporiano e yunkai sono piuttosto simili tra loro, il meereense
costituisce un caso particolare. Meereen è la città più grande della baia e dunque è
quella con il maggior numero di abitanti di bassa estrazione sociale. Siccome questa
parte di popolazione è meno istruita, parla un basso valyriano più rozzo e ciò
influenza profondamente la lingua. Le differenze fra i tre idiomi sono tuttavia
prettamente fonetiche, in quanto la grammatica è pressoché la medesima.
Prima del Disastro e della conseguente distruzione di Valyria, una delle nobili
famiglie della Libera Fortezza, i Targaryen, si stabilisce sull’isola di Roccia del
Drago, avamposto più vicino al Continente Occidentale. Grazie alla sua fuga è
l’unica famiglia originaria di Valyria a sopravvivere al cataclisma ed è anche l’unica
a conservare la norma classica della lingua valyriana (Peterson, 2014).
Mentre inizialmente i Valyriani si limitano a commerciare con Westeros, i Targaryen
decidono di iniziarne la conquista; Aegon I il Conquistatore è l’autore dell’impresa,
insieme alle sorelle mogli Visenya e Rhaenys (García et al. 2014). Durante la
Conquista, i Targaryen si adattano alla lingua del nuovo continente e iniziano a
parlare la lingua comune dei Sette Regni, pur mantenendo il valyriano tra di loro.
Anche dopo la fine delle guerre di Conquista, i discendenti di re Aegon si
trasmettono l’un l’altro l’antica lingua della Libera Fortezza, senza risentire in alcun
modo delle varietà di basso valyriano che vanno sviluppandosi nello stesso momento
nelle città ormai libere di Essos. Siccome l’incesto è un’antica tradizione valyriana, io
Targaryen non mischiano il loro sangue con quello del popolo di Westeros e questo
fattore aiuta a mantenere la lingua pura, oltre che il sangue. Dopo un certo periodo,
tuttavia, la pronuncia valyriana viene intaccata dalla lingua comune; infatti,
nonostante i Targaryen abbiano conservato perfettamente la grammatica originaria,
la pronuncia delle lettere j e v è cambiata nel corso dei secoli.
Un caso particolare è rappresentato dall’unica discendente dei Targaryen ancora in
vita: Daenerys Targaryen, che impara l’alto valyriano dal fratello maggiore Viserys,
anche se i due non crescono a Roccia del Drago o nel Continente Occidentale. Il loro
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padre, Aerys II detto il Re Folle, viene infatti spodestato e ucciso in seguito a una
ribellione capeggiata dalla casa Baratheon, che s’installa sul Trono di Spade.
Essendo gli unici sopravvissuti della loro nobile casata, costituiscono entrambi una
minaccia al potere del nuovo re, Robert I; nei primi anni del suo regno, egli manda
diversi sicari contro i due discendenti, cercando di eliminarli. Daenerys e Viserys
sono quindi costretti a fuggire di città in città nel continente orientale. In questi
luoghi i due fratelli entrano in contatto con molte varietà di basso valyriano e ciò
dona a Daenerys la possibilità di assimilarne qualche parola e la costruzione
sintattica, nonostante lei parli l’alto valyriano.
Il fatto che l’alto valyriano abbia iniziato a evolversi profondamente solo dopo il
Disastro significa che fino a quel momento la lingua era rimasta sostanzialmente
intatta. Tuttavia, ben cinquemila anni separano gli albori dell’impero della Libera
Fortezza dal Disastro, dunque nella realtà è improbabile che una lingua non subisca
mutamenti sostanziali in un lasso di tempo così ampio. A partire dal cataclisma,
invece, l’evoluzione dell’alto valyriano è accelerata incredibilmente e in appena tre
secoli si sviluppano le varianti di basso valyriano. A tal proposito, Peterson pensa
che tale accelerazione sia dovuta principalmente alla distanza da Valyria e dal
contatto del valyriano con altre lingue (Peterson, 2014).
Nonostante si siano sviluppate molte varianti di basso valyriano, sono presenti dei
mutamenti comuni, come nel caso del latino. Per quanto riguarda le vocali, mentre
il latino ha perso la differenza tra vocali brevi e lunghe, che sono diventate chiuse e
aperte, tutte le vocali dell’alto valyriano sono diventate brevi. Le lettere che prima
formavano un dittongo, nel basso valyriano vengono sostituite da una singola
lettera. Per esempio, si passa da ao a o, come in dovaogēdy (immacolato) che si
trasforma in dovoghedhy; da ae a e come in hae (come) che diviene he e da a:e a aj
come nella parola āeksio (signore) che diventa aeske. La u e la i, quando si trovano
all’inizio di una parola e precedono una vocale, divengono fricative; per esempio, ūī
diviene vi, mentre iōragon (alzarsi) diventa joragho. La e e la o si trasformano
rispettivamente in i e u quando accentate, come accade alla parola hen (da oppure
di), divenuta hin, e kona (quello), divenuta kuna.
Anche le consonanti si sono molto modificate, soprattutto in base al principio della
semplificazione articolatoria. Le occlusive sonore tra due vocali si sono trasformate
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in fricative sonore, come jēlēbagon (soffiare) che diventa jelevagho. Le occlusive e le
fricative sorde tra due vocali sono diventate sonore, come otāpagon (pensare)
trasformatosi in odabagon e kesa (questi) divenuto kiza. La s seguita da
un’occlusiva ha subito una metatesi, fenomeno linguistico per cui due suoni
s’invertono tra loro all’interno della stessa parola. Per esempio, rytsas (ciao) si è
trasformato in rysta. Ancora la s è scomparsa se si trovava prima di un’occlusiva tra
due vocali, come nella parola ivestragon (dire) divenuta ivetragho. Le occlusive
sorde situate prima di una t hanno subito una debuccalizzazione, ovvero un
fenomeno fonetico che causa un cambiamento nella pronuncia della consonante; E
può notare questo mutamento nella parola teptan (forma perfetta di tepagon,
“dare”) divenuta tehtan. Infine, la i posizionata tra un’occlusiva e una liquida tra
due vocali viene eliminata, come si può riscontrare in kostilus (forse), divenuto
kotlu (Valyrian Historical Linguistics, 2016).
A livello morfologico, l’alto valyriano ha un complesso sistema di casi, proprio
come il latino; nel passaggio al basso valyriano questo sistema è cambiato, ma i casi
non sono andati del tutto perduti. Come per il latino sono stati aggiunti gli articoli
determinativi e indeterminativi, che nella lingua antica non erano presenti; si può
presumere che in un’ipotetica evoluzione ulteriore i casi scompaiano
completamente.
Questi mutamenti, tuttavia, non sono uguali in tutto il continente orientale; ad
Astapor gli articoli determinativi sono tre, due per il singolare (ji e vi o j’ e v’
davanti ai sostantivi che iniziano con una vocale) e uno per il plurale (po e p’). IL
differenza tra ji e vi consiste nella classe a cui appartiene il sostantivo a cui essi si
riferiscono (Peterson, 2013).
In alto valyriano esistono quattro classi, o generi, di nomi, Terrestre, Acquatica,
Solare e Lunare, che si suddividono in sei declinazioni (High Valyrian Noun
Declensions, 2016).
Nel passaggio al basso valyriano le classi si riducono a due: Celestiale, che
comprende le ex Solare e Lunare, e Terrestre, che comprende le ex Terrestre e
Acquatica.
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Genere
Alto valyriano
Genere
Basso valyriano
Italiano
Solare
Lunare
qablos
pēko
Terrestre
belmon
Acquatico
jēdrar
Celestiale
Terrestre
ji qablo
ji pegu
vi bilmo
vi jedror
Fegato
Oliva
Catena
Anno
Tabella 2: Evoluzioni delle classi dall’alto valyriano al basso valyriano – Tabella tradotta da A
language of thrones (Peterson & Language Creation Society, 2013)
Ji viene utilizzato con la classe Celestiale, mentre vi con la Terrestre (Peterson, 2013).
Esiste poi un unico articolo indeterminativo, corrispondente a me o mi (Astapori
Valyrian Vocabulary, 2016). Nella città di Meereen, invece, si sono sviluppati articoli
diversi. L’articolo determinativo è ye, utilizzato solo con i sostantivi appartenenti alla
classe Celestiale; il plurale, simile all’astaporiano, è pa o p’, mentre l’articolo
indeterminativo è ma. Un altro mutamento importante riguarda il sistema numerico,
che da singolare, plurale, paucale e collettivo passa ad avere solo singolare e plurale.
La sintassi, cioè l’ordine della frase, ha subito varie modifiche che l’hanno resa molto
più semplice. Innanzitutto il verbo non deve più essere messo esclusivamente al
fondo della frase come in alto valyriano, ma può trovarsi anche dopo il soggetto.
Inoltre, grazie all’inserimento degli articoli, la frase risulta più lineare e l’ordine delle
parole non è più confusionario. Anche guardando all’evoluzione del latino si può
riscontrare una semplificazione di questo tipo, infatti le frasi in basso valyriano sono
in un certo senso simili a una frase italiana o inglese.
La frase che segue vuole dimostrare la somiglianza e la serie di mutamenti
linguistici che hanno interessato l’alto valyriano.
Figura 3: Mutamenti linguistici dall’alto valyriano al basso valyriano – A language of thrones
(Peterson & Language Creation Society, 2013)
60
Si nota innanzitutto l’aggiunta degli articoli determinativi e della parola vali
(uomini) assenti in alto valyriano (evidenziati in grassetto). L’ordine delle parole è
drasticamente cambiato e ora la frase segue quasi l’ordine italiano. Tutti gli altri
cambiamenti sono di tipo fonetico, come morghot (morte) che diventa murgho
(Peterson, 2013).
Complessivamente però, le frasi si assomigliano, seppur lievemente, e si può
immaginare che, più o meno, appartengano alla stessa lingua. Ciò non accade con il
valyriano di Meereen, che presenta mutamenti fonetici che lo allontanano in modo
molto evidente dall’alto valyriano, come si può notare nella frase che segue.
Mittys iksā. Āeksia tolī kostōbi issi. (Alto valyriano)
Ska me gurp. P’aeske si kotovi uvuve. (Astaporiano)
Shka ma khurf. P’ashkesh she kraj waov. (Meereense)
Sei un illuso. I Padroni sono troppo forti.
(Peterson, 2014).
3.2 Analogie e differenze tra latino e alto valyriano
Il confronto tra latino e alto valyriano non riguarderà solo il punto di vista
linguistico, ma saranno prese in considerazione anche le culture dei due popoli.
Non saranno trattati tutti i punti che le due lingue hanno in comune affinché la
trattazione non risulti eccessivamente lunga e per la carenza di materiale sull’alto
valyriano. Saranno dunque analizzati gli argomenti più importanti e caratteristici.
Iniziando con il confronto linguistico, la prima analogia che si può facilmente nota-
re è la somiglianza del sistema di casi e declinazioni. Come già accennato, il valyria-
no si avvale di quattro classi, o generi: Solare, Lunare, Acquatico e Terrestre, ai qua –
li si aggiungono sei declinazioni. I sostantivi di ciascuna classe, tuttavia, non seguo-
no tutte le sei declinazioni, come dimostrato in tabella (pagina seguente).
Osservando la lettera finale di un sostantivo al nominativo è possibile riconoscere a
quale classe appartenga. I sostantivi che terminano con –s fanno parte della classe
Solare; se terminano con una vocale fanno parte della classe Lunare; quelli terminan-
ti in –r appartengono alla classe Acquatica e quelli che terminano in –n sono della
classe Terrestre. Osservando invece la vocale che precede l’ultima lettera, si può rico-
noscere la declinazione che segue il sostantivo; quelli che fanno parte della classe Lu-
61
nare costituiscono un’eccezione, in quanto l’ultima lettera permette di riconoscere
sia la classe sia la declinazione a cui appartiene il sostantivo.
Classi
Solare
Lunare
Acquatico
Terrestre
Prima declinazione
seconda declinazione
terza declinazione
quarta declinazione
quinta declinazione
-a
-y
-o
-e
-i
-ar
-or
-ir
-ys
-os
-es
-is
-en
Tabella 3: Declinazioni e classi dell’alto valyriano – Informazioni reperite da High Valyrian Noun De-
clensions, 2016
La sesta declinazione, che non compare in tabella, è utilizzata per vari tipi di so-
stantivi, che possono essere divisi in tre categorie: i nomi stranieri, i collettivi e i
paucali rianalizzati.
I sostantivi stranieri sono tutti quei nomi che provengono da altre lingue e che non
sono stati completamente accettati dall’alto valyriano; si tratta dunque di prestiti.
Un esempio è la parola buzdar(io) (schiavo).
I collettivi rianalizzati sono dei sostantivi che originariamente costituivano la ver-
sione collettiva di un sostantivo, ma con un significato ulteriore; un esempio è
azantyr. Teoricamente è il collettivo di azantys, che significa “soldato”, ma ha acqui-
sito un ulteriore significato, cioè “esercito”. A questo punto è stato necessario attri-
buire a tutti questi sostantivi una declinazione a parte, ovvero la sesta. È importan-
te notare che questi nomi mantengono il genere della parola da cui derivano, dun-
que nel caso di azantyr il genere sarà solare, dato che il nominativo singolare ter-
mina con –ys.
I paucali rianalizzati si comportano nella stessa maniera; il paucale di un sostantivo
ha acquisito un significato ulteriore, tanto che è stato necessario considerare quel
paucale come una parola diversa con una sua propria declinazione, ovvero la sesta.
Un esempio è la parola tīkun, che acquisice il significato di “ala” ma deriva da tīkos,
“piuma”.
62
Analizzando nel dettaglio la prima declinazione, troviamo solo sostantivi di genere
Lunare e Acquatico. Tuttavia, è presente un sottogruppo; infatti, i sostantivi lunari
possono terminare con una consonante seguita da a, come vala (uomo), oppure
con –ia, come dāria (regina). I nomi come “regina” si declinano in modo lievemente
diverso in quanto assumono lettere differenti nei seguenti casi: strumentale, comi-
tativo e vocativo singolare; genitivo, dativo, locativo, strumentale e comitativo plu-
rale; tutti i casi al paucale.
La seconda declinazione, così come la quarta e la quinta, non prevede eccezioni. IL
terza declinazione comprende i sostantivi di tutti i generi, ma per ciascuno di essi è
presente un sottogruppo.
Per la classe Lunare, i cui sostantivi terminano in –o, vi è il sottogruppo per i nomi
che terminano in –io, come āeksio (signore). I casi differenti sono i seguenti: stru-
mentale e comitativo singolare; genitivo, dativo, locativo, strumentale, comitativo e
vocativo plurale; tutti i casi al paucale; tutti i casi, tranne il nominativo, al collettivo.
I sostantivi della classe Solare terminano in –os, ma vi sono ben tre sottogruppi che
valgono per le parole come rūs (bambino), deks (cibo), ȳs (arte). Il primo sotto-
gruppo è caratterizzato da una radice che termina in –h, la quale però non compare
in tutti i casi. Il secondo e il terzo sottogruppo si comportano allo stesso modo, mamma
al posto della h hanno rispettivamente una –k e una –v.
I sostantivi della classe Terrestre che terminano in –on hanno un sottogruppo che
termina invece con –ion, come il termine dārion (regno). Per questa categoria cam-
biano i seguenti casi: strumentale e comitativo singolare; genitivo, dativo, locativo,
strumentale, complemento di compagnia e vocativo plurale; tutti i casi al paucale;
tutti i casi tranne il nominativo al collettivo. Infine, i sostantivi della classe Acquati-
ca terminano in –or, ma è presente la sottocategoria necessaria per parole come
Mȳr (città). Gli unici casi a essere diversi da quelli ordinari sono tutti i casi del pau –
cale (High Valyrian Noun Declensions, 2016).
In latino non ci sono sei declinazioni, bensì solo cinque, dunque ecco una prima dif-
ferenza. Una seconda riguarda i generi: mentre l’alto valyriano ne possiede quattro,
il latino ne ha solo tre, ovvero maschile, femminile e neutro.
I sostantivi della prima declinazione terminano con –ă al nominativo e si possono
trovare solo nomi di genere maschile e femminile. L’unico caso particolare è
rappresentato dai sostantivi deă (dea), filiă (figlia), equă (giumenta) e libertă
63
(liberta); questi nomi formano il dativo e l’ablativo plurale in –ābus anziché –īs.
La seconda declinazione raggruppa i sostantivi che terminano in –us, –er e –ŭm e al
genitivo singolare in –ī. I sostantivi in –us hanno la desinenza –ĕ al vocativo, mentre
quelli terminanti in –er hanno il vocativo uguale al nominativo. È presente una
particolarità nei sostantivi in –er, in quanto alcuni, come libĕr (libro), mantengono
la e nella radice solo al nominativo e al vocativo singolare. In tutti gli altri casi la e
viene rimossa, riducendo la radice a libr-. I sostantivi terminanti in –ŭm hanno
invece un paradigma con varie differenze, a parte il nominativo singolare
terminante in – ŭm anziché –us: il vocativo singolare termina con –ŭm anziché con
–ĕ, e il nominativo, l’accusativo e il vocativo plurale terminano tutti con –ă, anziché
differenziarsi in –ī (nominativo e vocativo) e –ōs (accusativo).
La maggior parte dei sostantivi terminanti in –us sono maschili; sono femminili alcuni
nomi di piante, come pōpulus (pioppo), pirus (pero), malus (melo), alcuni nomi di città,
come Corinthus (Corinto), o Rhodus (Rodi), e alcuni nomi di origine greca, come
methodus (metodo). I nomi in –er sono solo maschili e in –ŭm solo neutri.
I sostantivi che fanno parte della terza declinazione possono essere di tutti e tre i
generi e il nominativo non ha una desinenza comune, dunque si riconoscono dal
genitivo, il quale termina in –is. All’interno di questa declinazione esistono varie
particolarità in base al tipo di sostantivo, che può essere parisillabo o imparisillabo.
Imparisillabi sono i nomi che hanno al genitivo singolare una sillaba in più rispetto
al nominativo come, per esempio, rex, che al nominativo ha una sola sillaba e al ge-
nitivo due (regis), e tempus, che al nominativo ha due sillabe e al genitivo tre (tem-
poris). Parisillabi sono i nomi che al nominativo e al genitivo hanno lo stesso nume-
ro di sillabe come, per esempio, hostis, che al nominativo ha due sillabe e al genitivo
di nuovo due (hostis). Presentano una doppia uscita i seguenti casi: accusativo sin-
golare maschile e femminile (-ĕm, -ĭm); ablativo singolare maschile, femminile e
neutro (-ĕ, ĭ); nominativo, accusativo e vocativo plurale neutro (-ă, -iă); genitivo
plurale maschile, femminile e neutro (-ŭm, -iŭm); accusativo plurale maschile e
femminile (-ēs, -īs). Sono inoltre presenti alcuni sostantivi dalla declinazione irre-
golare, come bōs, bŏvis bovi, bovem, bos, bŏve; boves, boum, bubus, boves, boves, bu-
bus (bue/mucca).
Nella quarta declinazione si trovano nuovamente nomi appartenenti a tutti e tre i
64
generi; i maschili e i femminili terminano al nominativo in –ŭs, mentre i neutri in –
ŭ. Questi ultimi presentano una declinazione abbastanza diversa dai sostantivi ma-
schili e femminili; oltre al nominativo, divergono anche dativo, accusativo, vocativo
e ablativo singolare e nominativo, accusativo e vocativo plurale.
Nella quinta e ultima declinazione si trovano esclusivamente sostantivi femminili
che terminano con –ēs. Fanno eccezione i sostantivi diēs (giorno), che al plurale è
maschile e al singolare può essere sia maschile che femminile, e meridiēs (mezzo-
giorno), che è maschile. Eccezion fatta per diēs e rēs, gli altri nomi non hanno il plu-
rale oppure esso è presente solo al nominativo e all’accusativo (Monticini,
1977/1978).
Entrambe le lingue prese in esame presentano un sistema di declinazione dei so-
stantivi egualmente complesso e per niente immediato, come potrebbe essere
quello di una LAI. Nonostante vi siano ovviamente alcune differenze, le analogie ri-
sultano essere maggiori. È evidente in varie occasioni che Peterson si sia ispirato al
latino per creare l’alto valyriano e alcuni aspetti della sua lingua risultano forse an-
cora più complessi. Infatti, mentre il latino ha tre generi, l’alto valyriano ne ha quat-
tro; inoltre, il latino ha un solo tipo di plurale e l’alto valyriano ne ha tre (plurale,
paucale e collettivo). Nella tabella che segue vengono messi a confronto il paradig-
ma di un sostantivo valyriano e quello di uno latino, per mettere in risalto quanto
l’alto valyriano risulti più complesso.
VALA
Singolare
Plurale
Paucale
Collettivo
HOMO
Singolare
Plurale
Nom.
Acc.
Gen.
Dat.
Loc.
Strum.
Comp.
Voc.
Vala
Vale
Valo
Valot
Valā
Vali
Valī
Valoti
Valoti
Valoti
Valun
Valuni
Valar
Valari
Valuno
Valaro
Valunta
Valarta
Valunna
Valarra
Valosa
Valossi
Valussa
Valarza
Valoma
Valommi
Valumma Valarma
Valus
Valis
Valussa
Valarza
Nom.
Gen.
Dat.
Acc.
Voc.
Abl.
Hŏmo
Homines
Hominis
Hominum
Homini
Hominĭbus
Hominem Homines
Hŏmo
Homines
Homine
Hominĭbus
Tabella 4: Paradigma di un sostantivo in alto valyriano e in latino – Informazioni reperite da High
Valyrian Noun Declensions, 2016 e Grammatica latina (Monticini, 1977/1978)
65
Il sistema di flessione delle parole prevede i casi in entrambe le lingue. Ciò significa
che generalmente non vengono utilizzate preposizioni, eccetto in alcuni frangenti
per esprimere particolari messaggi. I casi sono lievemente diversi nelle due lingue.
L’alto valyriano presenta otto casi: nominativo, accusativo, genitivo, dativo, locativo,
strumentale, comitativo e vocativo. Il latino, invece, ne possiede solo sei in quanto
manca di strumentale e comitativo. Il locativo è un caso particolare: il latino ne è
sprovvisto, ma per indicare un luogo si serve di alcune preposizioni seguite da un
termine in caso ablativo o accusativo, a seconda di quello che il parlante voglia
esprimere.
Seguono due frasi esemplificative in alto valyriano, che saranno in seguito
analizzate.
Kēli Davidȳ dēmas.
Il gatto è seduto su David.
Davidys kēlī dēmas. David è seduto sul gatto.
Mentre in italiano le parole “gatto” e “David” e il verbo “sedersi” non cambiano, In
alto valyriano le lettere finali ci permettono di capire chi sia seduto su chi, In
quanto esprimono casi differenti.
Kēli, nella prima frase, è al caso nominativo: rappresenta dunque il soggetto della
frase. Nella seconda frase viene pronunciato diversamente (si noti il macron, che è
un segno diacritico usato in fonetica, sulla i finale), in quanto il caso è cambiato per
diventare locativo. Lo stesso discorso è applicabile al nome proprio Davidys, che si
trasforma in Davidȳ nel caso locativo. In italiano è presente ancora la preposizione
“su”, totalmente assente in alto valyriano in quanto già espressa all’interno del
sostantivo al caso locativo (Peterson, 2015). Questo caso particolare, dunque, dà la
possibilità di omettere una preposizione che sarebbe invece necessaria in latino
(supra) (Monticini, 1977/1978).
La frase che segue presenta un esempio in cui è necessaria anche in alto valyriano
una preposizione.
Va oktio remȳti vale jikās. Mandate un uomo alle porte della città.
In questa frase “alle porte” sarebbe teoricamente un semplice dativo, ma necessita
in realtà della preposizione va per indicare il luogo, la quale può legarsi solo con un
sostantivo al caso locativo o dativo (come nella frase proposta). A seconda del
66
messaggio che si desidera comunicare è necessario operare una scelta riguardo a
quale caso utilizzare, in quanto il significato varia; se associata al locativo, IL
preposizione va corrisponde a “verso”, “a”, “vicino” (stato in luogo), mentre se
abbinata al dativo equivale a “fino a”, “a” (moto a luogo).
Un’altra preposizione che si comporta come va è hen, la quale, associata al locativo,
significa “da, “di”, mentre al dativo corrisponde a “fuori da”. Quasi tutte le altre pre-
posizioni esistenti sono associabili esclusivamente al genitivo, come per esempio
naejot, che significa “di fronte a” (High Valyrian Adpositions, 2015).
Anche in latino alcune preposizioni possono essere associate a due casi (accusativo
e ablativo). In (in/verso) o sub (sotto) se associate all’accusativo esprimeranno un
moto a luogo, mentre se associate all’ablativo indicheranno uno stato in luogo
(Monticini, 1977/1978).
Dato l’utilizzo dei casi, non ci sono norme particolari che regolino la posizione delle
parole all’interno della frase sia in alto valyriano che in latino. L’unico accorgimento
sta nel porre il verbo sempre alla fine della proposizione, la quale, generalmente,
segue l’ordine di soggetto-oggetto-verbo (SOV) (Peterson, 2015). Questa
caratteristica è tipica di tutte le lingue che abbiano un sistema di casi, ma non vale
per idiomi come l’italiano che si servono di altri elementi, quali le preposizioni.
Sarebbe infatti impossibile distinguere, per esempio, un soggetto da un
complemento oggetto in quanto essi non presenterebbero alcuna differenza
formale.
Un’altra analogia che è facilmente constatabile tra le due lingue è la presenza degli
accenti. Tuttavia, in alto valyriano non è necessario porre graficamente l’accento
tonico sulle vocali che lo richiedono, mentre in latino è obbligatorio. Si tratta di una
scelta personale del glottoteta, in quanto Peterson stesso ha deciso di non dare
troppa importanza al macron, segno diacritico che indica una vocale lunga.
L’accento tonico, in alto valyriano, cade generalmente sulla penultima sillaba delle
parole; il latino, al contrario, segue diverse regole. Se la parola è composta da due
sillabe, esso cade sulla penultima, sia essa breve o lunga; nel caso in cui invece la
parola sia costituita da più di due sillabe, ci sono due possibilità. Se la penultima
sillaba è lunga, allora sarà accentata; se breve, l’accento andrà posto sulla
terzultima (Peterson, 2015; Monticini, 1977/1978).
67
Oltre a questi e molti altri aspetti comuni a livello linguistico, il latino e l’alto
valyriano presentano diverse analogie anche in altri ambiti. Per esempio, il prestigio
di entrambe le lingue era molto elevato. Nell’ottava puntata della terza stagione,
intitolata I Secondi Figli, Missandei, una traduttrice, si rivolge con queste parole a
Daenerys Targaryen: “Il tuo alto valyriano è molto buono, Vostra Grazia. Gli Dei non
potevano creare un linguaggio più bello. L’unica lingua perfetta per la poesia”.
Quest’affermazione può far pensare al prestigio che il latino ha avuto per secoli. In
Italia, in particolare, è stato necessario molto tempo prima che i poeti iniziassero a
utilizzare il volgare per scrivere le loro opere. Anche quando ormai il volgare era
diffuso, alcuni autori, come il celebre Petrarca, preferivano usare il latino, accanto al
volgare, come lingua letteraria. Petrarca aspirava alla gloria letteraria grazie alle sue
opere in latino, ma la ottenne invece per il Canzoniere, scritto in volgare ma con un
titolo latino (Rerum vulgarium fragmenta). In epoca medievale e moderna, il latino
era insegnato ai figli dei nobili e ancora oggi si studia nella maggior parte delle
scuole superiori per almeno due anni. L’alto valyriano è egualmente importante e
prestigioso, infatti viene anch’esso insegnato dai maestri nel Continente Occidentale
ai figli dei nobili. Ciò spiega il motivo per cui alcuni personaggi di alto lignaggio, come
Lord Tyrion di Casa Lannister, abbiano qualche conoscenza rudimentale della lingua
parlata fluentemente da Daenerys Targaryen.
Per quanto riguarda la forma di governo, sono presenti varie differenze. I Valyriani
non hanno avuto nessun re o imperatore e questo è il motivo per cui hanno
denominato il loro dominio Libera Fortezza. Ogni cittadino con dei possedimenti
terrieri aveva voce in capitolo in politica e le uniche figure autoritarie erano gli
Arconti, lord terrieri eletti dai loro pari. Essi avevano il compito di facilitare il
comando e la loro carica aveva una durata limitata. Normalmente erano al
comando Arconti di diverse famiglie, anche se talvolta poteva esserci in carica una
singola famiglia (García et al. 2014).
Roma, al contrario, ha cambiato forma di governo varie volte nel corso della storia.
La prima durò più di due secoli, dalla fine dell’VIII alla fine del VI secolo a. C.:
questo periodo è detto monarchico, o età regia, o arcaica. La storia parla di sette re,
di cui non si hanno notizie certe. É improbabile che siano stati solo sette e alcuni di
loro probabilmente furono figure leggendarie, ma i re rappresentano
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simbolicamente le fasi dell’evoluzione della città e l’organizzazione dello stato. Le
strutture portanti della società erano le gentes e la familiae e la distinzione sociale
più importante era fra patrizi e plebei. Il potere sovrano era detenuto dal re, che
esercitava funzioni politiche, religiose, militari e l’imperium, cioè decideva in modo
inappellabile; tuttavia, il suo potere non era indiscusso perché era eletto ed era
affiancato dal senato. I senatori eleggevano il re e lo sostituivano a turno in caso di
sua morte o impedimento. Con la caduta dell’ultimo re, Tarquinio il Superbo, nel
509 a. C., venne istituita una repubblica dpampargrazie carattere aristocratico che
vedeva il primato del senato. I senatori erano tutti di estrazione gentilizia.
L’aristocrazia controllava le magistrature politiche, militari e religiose. L’autorità
civile e militare era affidata ai consoli che comandavano l’esercito e
amministravano la giustizia, sostituendosi alla precedente figure del re. Iniziò nel
periodo repubblicano l’espansione di Roma in Italia, a cui seguirono le conquiste
imperialistiche fuori d’Italia, mentre, in seguito a conflitti, i plebei ottenevano
importanti riforme. Roma divenne padrona di un impero immenso, che abbracciava
l’intero Mediterraneo e alcuni territori in Oriente.
Dopo un lungo periodo di crisi istituzionale, nel 27 a. C. Ottaviano Augusto ristabilì
la pace ma fu la fine della repubblica e venne instaurato il potere imperiale. La pax
romana durò due secoli e i possedimenti romani raggiunsero la massima
espansione, costituendo un grande sistema coeso e integrato (Guarracino,
Perissinotto, Grassi & Frigerio, 1B, 2002). Tra la fine del IV e l’inizio del V secolo
l’impero, ormai cristiano, attraversò una profonda crisi economica, politica e
militare. Si delineava la separazione tra Oriente e Occidente, destinata a diventare
definitiva, e le popolazioni barbariche premevano ai confini. Nel 410 i visigoti
compirono il sacco di Roma e, nel 476, avvenne il crollo dell’Impero Romano
d’Occidente. Il crollo dell’Impero Romano d’Oriente avverrà nel 1454 con la presa
di Costantinopoli a opera dei turchi Ottomani (Guarracino et al. 2A, 2002).
Un ultimo aspetto che, in parte, presenta caratteristiche simili tra la cultura
valyriana e quella romana è la religione. La Libera Fortezza, all’apice del suo potere,
era caratterizzata da una libertà di culto assoluta e non c’era nessuna religione
ufficiale di stato. Non privilegiava né proibiva alcuna fede e molti valyriani
adoravano più divinità, anche se la maggior parte non ne adorava alcuna. Alcune
69
delle città libere, come Qohor e Norvos, erano state occupate da particolari sette
religiose formatesi a Valyria; non tollerando l’estrema libertà di culto, esse decisero
di lasciare Valyria per fondare le proprie città in cui poter esercitare il proprio culto
(García et al. 2014).
I Romani avevano un modo particolare di vivere la religione. Essa era considerata
come una religione politica, che mirava all’utile, e a essa si ricorreva, con riti o
sacrifici, in modo che gli dei offrissero benefici in cambio. Le formule e i precetti
erano rispettati come se fossero leggi, in quanto la religione non era separata, come
lo è oggi, dalla politica. A differenza da Valyria, a Roma era presente una religione
di stato, anche se differenziata nel tempo nella pratica dei culti. Infatti, mentre
originariamente la religione romana si limitava al mondo rurale e a una serie di riti
dei campi, a partire al VI secolo a.C. l’influenza etrusca e, soprattutto, greca,
causarono un allargamento nelle fila delle divinità. Gli dei assunsero caratteristiche
antropomorfe e vennero fatti corrispondere a quelli greci: Giove era per i Greci
Zeus, Giunone corrispondeva a Era, Diana ad Artemide e così via.
Siccome i valyriani non avevano una religione comune, ogni culto aveva i propri
seguaci e sacerdoti. Nella religione romana, al contrario, erano presenti vari gruppi
sacerdotali, che si occupavano ognuno di compiti diversi: le Vestali, per esempio,
l’unico gruppo sacerdotale femminile, dirigevano il culto di Vesta, la dea latina del
focolare. I pontefici, invece, erano un gruppo più importante; quando si riunivano
erano diretti dal pontefice massimo che, in età monarchica, corrispondeva alla
figura del re. In età repubblicana questa carica divenne ancora più importante, In
quanto la scelta di questa figura politico-religiosa avveniva tramite elezione
(Gentile, Ronga, Rossi & Cadorna, 2014).
Un grande cambiamento nella società romana, invece, avvenne con la diffusione del
Cristianesimo, prima osteggiato con persecuzioni e repressioni, poi assunto quale
religione di Stato, nel 380, grazie all’imperatore Teodosio. Il Cristianesimo fu uno
dei fattori che determinarono importanti durature modificazioni linguistiche nella
società romana perché si rivolgeva a tutti gli strati sociali adeguando il proprio
linguaggio a ognuno di essi. Il Cristianesimo ebbe un ruolo importante nel processo
di dissoluzione del classicismo e nella nascita delle lingue romanze, ma svolgerà
anche un ruolo molto importante nella conservazione e nella trasmissione della
70
cultura classica (Gensini, 1988/1992).
Nonostante ci siano ancora molti aspetti delle due lingue che potrebbero essere
analizzati e paragonati, il terzo e ultimo capitolo è giunto al termine. Lo scopo di
questa tesi era di verificare se una lingua pianificata potesse essere considerata
una lingua a tutti gli effetti, tanto quanto una naturale. Questo scopo è stato
raggiunto perché, nonostante latino e alto valyriano non siano stati paragonati in
ogni dettaglio possibile, gli elementi analizzati sono sufficienti a dimostrare la
complessità e la verosimiglianza dell’alto valyriano. Questa lingua è stata costruita
in modo efficace e l’ascolto o la lettura di un brano non sono sufficienti di per sé a
far comprendere che si tratta di un idioma pianificato.
Questa conclusione è valida anche per l’esperanto; il fatto di essere una lingua
creata artificialmente, non lo rende riconoscibile come tale. L’unico aspetto
caratteristico è la semplicità, richiesta dalle esigenze di una Lingua Ausiliaria
Internazionale; un europeo noterà indubbiamente la vicinanza alla propria lingua,
in quanto era questo lo scopo del dottor Zamenhof. Per raggiungere tali risultati
una lingua pianificata deve essere completa e non costituita solo da pochi elementi.
Esistono alcuni tipi di lingue, dette naming languages, che sono costruite solo in
parte e vengono utilizzate per denominare luoghi, persone o oggetti. Non
possiedono regole grammaticali e non hanno una struttura vera e propria
(Henning, 1995). Con questo particolare tipo di lingue non è possibile scrivere un
testo completo o formulare un discorso, dunque non sono abbastanza complete da
risultare verosimili come l’alto valyriano o l’esperanto.
71
Conclusione
All’inizio di questo lavoro, le domande e i dubbi riguardo alle lingue inventate, o
meglio pianificate, erano molti; l’idea di creare una lingua partendo da zero
sembrava un’impresa a dir poco ardua, che solo pochi geniali studiosi potevano
riuscire a realizzare. Tuttavia, durante questo lavoro, ho studiato i procedimenti e
le tecniche utilizzati dai glottoteti, o conlanger, e mi sono avvicinata a questa
materia in modo più scientifico. Ora, pur sapendo che si tratta di un compito
estremamente difficile, so che è facilitato dalla presenza di molto materiale utile
allo scopo.
Il primo capitolo è stato fondamentale per introdurre in modo appropriato lo
studio sulle lingue pianificate e naturali. Le definizioni che ho scelto di riportare,
infatti, sono necessarie a specificare la terminologia adatta per parlare di
pianificazione linguistica.
Il successivo confronto tra lingue pianificate e lingue naturali è stato presentato
tramite l’analisi delle principali proprietà generali delle lingue. Grazie a questo
studio sono state messe in luce le analogie e le differenze tra i due tipi di codice
che, nonostante nascano e si sviluppino in modo diverso, sono risultati essere
molto simili; le lingue pianificate, infatti, condividono con le lingue naturali quasi
tutte le loro proprietà generali.
Anche la classificazione delle lingue pianificate è stata fondamentale prima di
continuare il lavoro. Tra le varie proposte la scelta è caduta su una classificazione
che distinguesse le lingue secondo il motivo della loro pianificazione, per mettere
in risalto le differenze tra le varie tipologie. Da questa classificazione è emerso che
esistono vari tipi di lingue pianificate, che possono essere create per i fini più
diversi e rispettando canoni differenti.
Da questa presa di coscienza si è sviluppato il secondo capitolo, il cui argomento
73
fondamentale è stato il processo di creazione di due lingue pianificate per scopi
diversi. Prima, tuttavia, ho ritenuto che fosse necessario presentare il processo di
nascita di una lingua naturale; per poter tentare di pianificare un idioma che risulti
verosimile, è fondamentale conoscere lo sviluppo naturale di una lingua e le
modalità in cui esso avviene. A tal proposito sono state analizzate e spiegate le
variazioni diacronica, diatopica, diafasica, diastratica e diamesica, prendendo in
considerazione le varie tipologie di mutamento linguistico che possono interessare
le lingue. Inoltre, sono state presentate le condizioni che possono favorire, o meno,
l’avvenimento del mutamento linguistico.
Passando alle lingue pianificate, innanzitutto è stato importante specificare che, UN
prescindere dalla tipologia di lingua che il glottoteta vuole creare, esse hanno in
comune la fase della glottopoiesi, mentre la fase di vita semiologica non è raggiunta
da tutte. Il procedimento, tuttavia, varia di molto se il glottoteta vuole creare una
LAI, come l’esperanto, o una lingua per la finzione letteraria, come l’alto valyriano.
L’esperanto è stato costruito secondo il principio d’internazionalità e con
l’intenzione di renderlo semplice e immediato. Peterson, al contrario, ha avuto altre
difficoltà da affrontare, la prima delle quali era la mancanza di un contesto storico-
culturale a cui far corrispondere la sua lingua. Tuttavia, il lavoro è stato soggetto a
regole meno ferree, in quanto non era destinato a facilitare la comunicazione
internazionale. Sono infatti presenti, nell’alto valyriano, diversi elementi che
caratterizzano di solito una lingua a priori nonostante esso sia considerato una
lingua a posteriori.
Lo scopo dell’ultimo capitolo è stato chiarire se una lingua pianificata per la
finzione letteraria potesse essere considerata parimenti dignitosa quanto una
lingua naturale. Per il confronto tra i due tipi di lingue sono stati scelti l’alto
valyriano e il latino alla luce delle parecchie analogie presenti tra loro.
Dapprima sono stati esaminati i più importanti mutamenti linguistici che hanno
contribuito a trasformare il latino in lingue romanze e l’alto valyriano in basso
valyriano. Lo scopo era di verificare se le due lingue avessero seguito una linea
evolutiva comune o meno e ne è risultato che i mutamenti linguistici che le hanno
riguardate sono simili. Tuttavia, il latino si è trasformato ed è stato arricchito grazie
anche all’apporto di molti vocaboli provenienti da lingue di contatto; il valyriano, al
74
contrario, ha subito più mutamenti di ordine morfologico che lessicale. Qualche
apporto è giunto dalla lingua ghiscariana, ma non significativo.
I mutamenti lievemente diversi delle due lingue rispecchiano la storia delle due
civiltà; il crollo dell’Impero Romano è avvenuto in modo non improvviso, in seguito
a una lunga crisi politica, economica, militare che lo ha portato alla disgregazione.
Le variazioni linguistiche, provenienti dalle popolazioni barbare, hanno avuto il
tempo di diffondersi gradualmente. L’impero della Libera Fortezza, invece, è stato
spazzato via da un cataclisma improvviso; di conseguenza, gli abitanti delle città
del continente orientale hanno iniziato solo a partire da quel momento a
esprimersi nella loro lingua più liberamente, poiché prima i Valyriani avevano loro
imposto il proprio idioma. Essi hanno iniziato a inserire nell’alto valyriano termini
dei loro dialetti, portando alla nascita del basso valyriano. In entrambi i casi,
comunque, se non fosse avvenuto il crollo dell’impero la lingua avrebbe
probabilmente preso una direzione differente. Sono i fatti storici, culturali e sociali
che determinano il comportamento di una lingua. Le varianti si sono potute
affermare solo perché è scomparso il centro unificatore politico, culturale e
linguistico.
Infine, il latino e l’alto valyriano sono stati paragonati fra loro nei dettagli, con
l’analisi di alcuni aspetti linguistici, come il sistema delle declinazioni e dei casi. Il
confronto ha anche interessato alcuni aspetti esterni alla lingua, ovvero la religione
e la storia, che costituiscono le caratteristiche culturali più importanti che possono
influenzare una lingua.
Il risultato finale è che non solo l’alto valyriano può essere considerato una lingua
completa ed egualmente complessa come il latino, ma per alcuni aspetti è anche
più complicato. Questa sua complessità lo pone sullo stesso livello di una lingua
naturale: non solo è composta da una serie di regole linguistiche, ma si appoggia
anche su un fondo culturale, storico e politico proprio di una comunità di parlanti
che, giorno dopo giorno, contribuiscono inconsciamente al mutamento della loro
stessa lingua.
75
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79
Appendice A
Figura 1) Classificazione delle lingue pianificate – Schema rielaborato da Aga
Magéra Difúra (Albani & Buonarroti, 1994/2011, pp. 12-13)
81
Figura 2) Mappa di Essos con le città libere e Valyria – Immagine reperita da Google
immagini e modificata da me
Figura 3) Mutamenti linguistici dall’alto valyriano al basso valyriano – A language
of thrones (Peterson & Language Creation Society, 2013)
82
Tabella 1) Il numero in alto valyriano – Tabella tradotta da The Art of Language
Invention (Peterson, 2015, P. 201)
Numero Accordanza verbo
Logica
Singolare
Uno
Singolare
Un attore
Plurale
Molti
Plurale
Attori multipli non trattati come unità
coesa
Collettivo
Tutti
Singolare
Attori multipli trattati come unità
Paucale
Pochi
Plurale
Numero ristretto di attori non trattati
come unità coesa
Tabella 2) Evoluzioni delle classi dall’alto valyriano al basso valyriano – Tabella
tradotta da A language of thrones (Peterson & Language Creation Society, 2013)
Genere
Alto valyriano
Genere
Basso valyriano
Italiano
Solare
Lunare
qablos
pēko
Terrestre
belmon
Acquatico
jēdrar
Celestiale
Terrestre
ji qablo
ji pegu
vi bilmo
vi jedror
Fegato
Oliva
Catena
Anno
Tabella 3) Declinazioni e classi dell’alto valyriano – Informazioni reperite da High
Valyrian Noun Declensions, 2016
Prima declinazione
seconda declinazione
terza declinazione
quarta declinazione
quinta declinazione
Classi
Solare
Lunare
Acquatico
Terrestre
-a
-y
-o
-e
-i
-ys
-os
-es
-is
83
-ar
-or
-ir
-en
Tabella 4) Paradigma di un sostantivo in alto valyriano e in latino – Informazioni
reperite da High Valyrian Noun Declensions, 2016 e Grammatica latina (Monticini,
1977/1978)
VALA
Singolare
Plurale
Paucale
Collettivo
HOMO
Singolare
Plurale
Nom.
Acc.
Gen.
Dat.
Loc.
Vala
Vale
Valo
Valot
Valā
Vali
Valī
Valoti
Valoti
Valoti
Strum.
Valosa
Valossi
Valun
Valuni
Valuno
Valunta
Valunna
Valussa
Valar
Valari
Valaro
Valarta
Valarra
Valarza
Comp.
Valoma
Valommi
Valumma
Valarma
Voc.
Valus
Valis
Valussa
Valarza
Nom.
Gen.
Dat.
Acc.
Voc.
Abl.
Hŏmo
Hominis
Homini
Homines
Hominum
Hominĭbus
Hominem
Homines
Hŏmo
Homine
Homines
Hominĭbus
84
SCUOLA SUPERIORE PER MEDIATORI LINGUISTICI
“ADRIANO MACAGNO”
Legalmente riconosciuta dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica
DD.DD. del 30 settembre 2005 e del 27 ottobre 2009
TESI DI DIPLOMA
DI
MEDIATORE LINGUISTICO
Equipollente ai Diplomi di Laurea rilasciati dalle Università al termine dei corsi
afferenti alla classe delle
LAUREE UNIVERSITARIE
IN
MEDIAZIONE LINGUISTICA
Constructed languages between
fantasy and reality
RELATORE
Lingua Italiana
Prof. ssa Gonnet Anny Maria
RELATORE
Lingua Inglese
Prof. ssa Daly Sabrina
CANDIDATO
Salis Sara
Matr. N. 2014/P070
ANNO ACCADEMICO 2016-2017
Index
introduzione ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..91
Capitolo 1. Constructed languages and natural languages …………………………………………………… 93
1.1 Definitions …………………………………………………………………………………………………………………………………………. 93
1.2 Constructed languages and natural languages: comparisons ……………….. 97
1.3 Constructed languages: classification …………………………………………………………………….. 102
Capitolo 2. Birth of a language ………………………………………………………………………………………………………………….. 109
2.1 The of birth and development process of a natural language ……………. 109
2.2 The creation and development process of a constructed language. 112
2.2.1 A constructed language for the real world (Esperanto) …………………………. 115
2.2.2 A constructed language for literature (High Valyrian) ……………………………. 119
2.2.3 Comparison between the two processes ……………………………………………………………… 124
Capitolo 3. High Valyrian and Latin …………………………………………………………………………………………………………127
3.1 Evolution of the two languages……………………………………………………………………………………….127
3.1.1 From Latin to Romance languages……………………………………………………………………………….129
3.1.2 From High Valyrian to Low Valyrian………………………………………………………………………….136
3.2 Analogies and differences between Latin and High Valyrian………………..143
Conclusione …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… 155
Bibliografia…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… 159
Appendix A …………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… 163
89
introduzione
“Nyke Daenerys Jelmāzmo hen Targārio Lentrot, hen Valyrio Uēpo ānogār iksan.
Valyrio muño ēngos ñuhys issa“. The idea for this thesis was born from this sentence
in High Valyrian, which is told by Daenerys Targaryen, character of one of the most
famous TV series of the last years: Game of Thrones. The exiled queen expresses
herself through an invented language, which is not spoken in any part of the world;
Ancora, by listening to this sentence and many others, her language seems extremely
real, with specific sounds, grammar, vocabulary and syntax.
After studying the way in which languages arise and how social phenomena deeply
influence the linguistic ones, a question was spontaneously born: if a language
requires centuries to form and it is so depending on elements such as culture,
history and society, then how is it possible to create a language from nothing?
This thought made me curious to the point that I started to read up, finding even
more interesting information than I expected. I have discovered a nearly
completely unknown world and the more I searched, the more the results intrigued
me and created other questions, until I thought this topic could be important
enough to be discussed on the occasion of a graduation.
A questo punto, I started searching specific material in order to write a thesis and the
answer to my initial question revealed to be very articulated. In fact, Prima
explaining the process of creation of a constructed language, it will be appropriate
to highlight the terminology used in the field of invented languages.
Perciò, in the first chapter, various definitions will be proposed and the general
characteristics of languages will be presented, in order to understand if they are
shared both by natural and invented languages. Tuttavia, during the search for
material other questions formed: Per esempio, are invented languages all linked to
the literary field? To answer, a classification of the various existing invented
languages will be presented, in order to have a more complete vision on the topic.
It is in the second chapter that the answer to the initial question will be introduced,
analysing the process of creation of an invented language and differentiating it
from the process of birth of a natural one. The emphasis will be placed, In
particolare, on two artificial languages: Esperanto, an International Auxiliary
Lingua (IAL), and High Valyrian. As it will be possible to read during the chapter,
these two languages were born to fulfil two different purposes. The first one,
created by Doctor Zamenhof, has the aim of working as a bridge between speakers
of various European languages, offering them the possibility of communicating
through a rather simple and immediate language, without using, for example,
English. The second one, created by David J. Peterson, was born instead with the
aim of giving voice to an imaginary population, without making it evident that it is
an invented language. I chose to focus only on these two languages because it is
possible to say that they are the opposite, both for their aim and for their method
of creation. I think that, per questo motivo, they offer very interesting points to work
su.
In the third and last chapter, there will be the search for the answer to one more
question: can an artificial language be considered as worthy as a natural one? Is
there an unnatural simplicity, due to the fact that the language was created instead
of developing naturally? With regards to this, two languages will be compared: UN
natural language among the most important in the world, latino, and the recent
language that gave voice to Daenerys Targaryen, High Valyrian. I will compare
grammar, phonology and morphology, but even all the external elements that
contribute to influencing a language, such as the culture or history of the people. IO
chose to contrast High Valyrian with Latin first because the two languages were
compared several times in the past; Inoltre, after some research, I found
many common points between them, so I decided to analyse them more accurately
to gain better understanding of them. Finalmente, I think that if High Valyrian results
similar to Latin, one of the most important and influent languages in the world,
then this will certainly place it at the same level as any other natural language.
92
CHAPTER 1
Constructed languages and natural languages
1.1 Definitions
Languages are totalities, inventories of words and usage rules typical of single
historical communities living in certain periords. This is the definition of language
that Tullio De Mauro gives in the Presentazione of the work Elementi di storia
linguistica italiana, by Stefano Gensini (1982, P. 8). The author obviously talks
about languages spoken on Earth, but this could make the definition imprecise; In
fatto, even Elvish of John Ronald Reuel Tolkien could be considered as a real
lingua. The Elves, in the fantasy world created by the author, are in all respects a
historical community living in a determined period, expressing itself through its
own linguistic signs.
Tolkien’s Elvish is perhaps one of the most known invented languages in the world,
but there are a lot more that could be considered, as the Kēlen language, created by
Sylvia Sotomayor for literary purposes in 1980; it is a language characterized by
the absence of verbs and spoken by Kēleni, a humanoid population of planet
Tērjemar. Another example is Ayeri, a constructed language project of Carsten
Becker who in 2003 started dedicating to the codification of an invented language
for merely recreational purposes. Even Klingon, invented by Mark Okrand for Star
Trek, is a suitable example and there are a lot more.
Another very recent invented language is High Valyrian, constructed together with
the Dothraki by the linguist David J. Peterson for the TV series Game of Thrones,
based on the American writer George R. R. Martin’s books A Song of Ice and Fire.
Like Elvish, High Valyrian is a language that does not belong to our world but it is
spoken and written in Essos, the Eastern Continent in which part of the story
shown in the TV series takes place. The differences between the languages
93
mentioned before and those spoken on Earth, called natural languages, are various;
what mainly makes them different is clearly their origin, because it determines
their future development. Constructed languages are the result of a conscious act
of creation, therefore they share similar characteristics; tuttavia, non lo sono
subjected to continuous variations due to the activity of speakers, as it happens to
natural languages. Questi, Infatti, undergo various evolutions during the centuries,
until they become as we know them nowadays. Perciò, we call a natural
language any language existing in the world that was spontaneously born and
underwent phases of evolution because it is subject to variations and mutations,
namely any spoken language (David J. Peterson, 2015). Silvia Luraghi (2006)
specifies furthermore that the language must have developed in a community of
speakers, have been inherited between generations and then be learnt as mother
tongue, of first socialisation, by new speakers.
Returning to the definition of language, in order to consider Elvish, High Valyrian
or Dothraki as languages, it is possible to consider them in a broad sense as a
complex system of communication. The human verbal communication occurs
correctly when the sender, who expresses the linguistic message, and the recipient,
who interprets it, share a code thanks to what it is possible to give a meaning to
reality.
Perciò, a code is the whole of correspondences fixed by common consent
between something (a whole showing) and something else (a whole showed), Quale
provides the rules to interpret the signs. All the systems of communication are codes
and the linguistic signs form the code language. (Berruto & Cerruti, 2011, P. 7).
A specification is necessary: There are various types of code, with characteristics
that make them extremely different. Per esempio, a language like Italian is different
from the mathematical language, even though they are both codes; Italian has in
fatto, like every language, specific properties as the semantic omnipotence, IL
plurifunctionality and the reflexivity. The semantic omnipotence refers to the
ability of the language of expressing any content; the plurifuncionality is the
possibility of fulfilling several different functions; the reflexivity, or metalinguistic
funzione, is the ability of the language of discuss and describe itself (Romano &
Miletto, 2011). Inoltre, the linguistic code is alive and in a continuous
94
evolution and it varies in a diachronic dimension through the speakers, who can
modify its rules. The rules of the mathematical code, d'altra parte, cannot be
modified. The use of a linguistic code is creative, the use of the mathematical code
cannot be; the speaker is the one who guarantees the vitality of a linguistic code
and contributes either to create and keep the variations or to sanction its
abandonment. The one who uses the mathematical code shares its rules, without
the possibility of modifying them.
Another term that can be used to define languages is “real languages” (Peterson,
2015), which includes both those naturals and those constructed, because both
exist and were born or were created in our world. Tuttavia, in order not to
focus the attention only on the real or not real existence of a language, it is
necessary to underline that history and evolution of a naturally born language,
which has been spoken over centuries, are different from those of a language that
has been artificially created. Being High Valyrian just a fiction, it has never
undergone the various mutations as it usually happens to natural languages; these
are subject to several changes in time (diachronic mutation), so that, in the
evolution process, new languages may arise (cioè. the passage from Latin to
Romance languages).
Perciò, in order to define precisely a language as High Valyrian, marking its
difference from the languages of our world, it is necessary to choose the best way,
among the various proposals we can find in literature.
For this reason, the three definitions that seem to be more interesting are the
following:
Constructed language: complete linguistic system, defined in writing by a
linguistic planner, called conlanger, for various purposes, as Gobbo defines it
(2009, p.70);
Artificial language: language intentionally constructed through a series of
conventions both in rules and in vocabulary, as it is defined in Aga Magéra Difúra
(Albani & Buonarroti, 2011, P. 46);
Imaginary language: system of signs, often not codified, that belong to a fictional
community or people, not elaborated for practical purposes, but only for
recreational-expressive ones. (Albani & Buonarroti, 2011, P. 194).
95
Each one of these definitions is important, because it gives different types of
informazioni; the first one specifies the concept of constructed language and it
introduces the figure of the conlanger, different from the linguist who studies
languages from a scientific point of view, whereas a conlanger creates them. UN
conlanger does not necessarily work in linguistics; in fact, some International
Auxiliary Languages (that will be analysed later) were created by conlangers who
were doctors, engineers, mathematics or priests. The definition specifies,
Inoltre, that a language can be created for different purposes, which can be
philosophic, recreational, religioso, literary, linguistic or scientific; for what
concerns High Valyrian, the purpose is literary.
The second definition gives the possibility of distinguishing artificial languages and
natural languages because these, as specified before, are the result of an evolution;
pertanto, there is not someone who consciously establishes conventions, whereas
for artificial languages it is the creator’s, or creators’, duty to consciously elaborate
these conventions.
Finalmente, the third one explains that an imaginary language, exclusively created for a
recreational purpose, belongs to an imaginary community as well.
Among the three denominations, even though they are all suitable, that of
“constructed” is the best one because it describes in a complete way every
fundamental characteristic of this type of languages. Per questo motivo, it is the one
that will be used in this treatment, making the same choice as Federico Gobbo
(2009, P. 70) who claims that this is the best terminology to use, even though there
are various denominations.
Until now, the attention has been put only on constructed languages belonging to
non existent communities, whose creators have followed a literary purpose.
Tuttavia, according to the definition of constructed language, it is possible that
a conlanger has a linguistic purpose. In fact, there are constructed languages
created to be spoken and written in this world by existent communities, called
International Auxiliary Languages (IAL), namely languages created to ease written
and oral relations between people of different mother tongues (Albani &
Buonarroti, 2011, P- 49).
96
An IAL must fulfil certain requirements: Primo, it must not be an already existing
national language, because this way the speakers of this language would be helped.
Anzi, it must be as neutral as possible, as Umberto Eco affirms (1993),
referring to the IAL projects arisen at the beginning of the 20th century: “[…]
[F]ormed on the model of natural ones, but which might seem natural to all its
users” (P. 318). It must not be a dead language as Latin , even though there was an
attempt, which failed, of restoring it with some modifications. This project is called
Latino sine Flexione and the mathematician Giuseppe Peano accomplished it in
1903; he proposed it as an exclusively written language for the scientific
community, as Federico Gobbo says (2009). It was, as Umberto Eco reminds
(1993), a simplified Latin, without any declension, so “As with other international
lingue, Latino sine Flexione depended less upon its structural merits than on
establishing a consensus in its favour. Failing to achieve this, it became another
historical curiosity” (pp. 323-324). Another requirement of an IAL is that of being
useful in habitual relationships of social life, in business exchanges and in scientific
and philosophical relations (Albani & Buonarroti, 2011, P. 49).
Finalmente, it must Be easy to learn for every person with an average education and in
particular for European people (P. 49).
This requirement caused various issues for several IAL projects that were
proposed; it is difficult to create an easy-learning language for everyone without
helping a part of the speakers and without making choices that risk destroying it.
An example is what happened to Volapük, created by Johann Martin Schleyer from
Germania. He took English as model on which to base his constructed language;
tuttavia, in order to make it easier for Chinese people, he decided to remove
“r” because for them this phoneme would have been very hard to pronounce.
Tuttavia, in this way the language became too hard to be understood and learnt
even for Europeans, so the project did not develop anymore(Gobbo, 2009).
1.2 Constructed languages and natural languages: comparisons
After making clarity on the most appropriate terminology to use, it is good trying
to understand if a constructed language can be considered at the same level of a
natural one; to do this, it is necessary to clarify if they share any common feature.
97
A first difference has been found earlier: the origin. While natural languages are the
result of a process of evolution that lasts for centuries, the constructed ones arise
from an act of creation of their inventor. Tuttavia, the research of common features
between the two types of languages in this part of the dissertation will be more
detailed; in particolare, the general properties of languages, namely the attributes
that every language has, will be examined.
Antonio Romano (2010) explains what these general properties are; tuttavia,
he first gives a brief introduction where he explains that any linguistic system
considered will have some basic components that can be found in all the others:
phonology, morphology, syntax and vocabulary. It is important to underline that he
only considers natural languages and not the constructed ones: Per questo motivo, Esso
will be my duty to understand if what he writes is valid also for the last ones.
The first property described by the author is the linguistic plurifunctionality (already
mentioned before), which consists in the possibility of the language to be used to talk
about everything, even about itself (metalinguistic property). For what concerns
natural languages, there is a confirmation of the existence of this property every day,
because the speakers talk about various topics and, in qualche modo, they always manage
to express what they want to tell. It is important to notice that some languages are
more precise than others: Per esempio, in English the verb “to look up” does not have
an exact equivalent in Italian. Tuttavia, the sentence “to briefly visit” could express
correctly the sense of the meaning. It is possible to find differences of this type in other
cases too, often due to the surrounding environment and the people’s culture.
Considering two Italian dialects, Piedmontese and Sicilian, will emerge various
linguistic differences tied to the environment. Piedmont is situated in the extreme
north of Italy and Sicily at the extreme south, they are at far latitudes, therefore there
are different atmospheric phenomena. In Piedmontese there are various ways to
denote snow: Fioca, for example, is a word that indicates snow in general, Mentre
patarass refers in particular to the typical snow of the beginning of March. In Sicilian,
we do not find such a specific difference of words, but it will be easier to find several
words to denote the sea.
For what concerns constructed languages, they are as well characterised by linguistic
plurifunctionality, whatever is the aim of their creation. If an IAL did not have this
98
proprietà, it would be incomplete, so it would not be useful to help the international
communication. Considering constructed languages for imaginary worlds, such as
High Valyrian, it will be necessary to write more. Being constructed for non existent
people who live in fictional places and with an fictional culture, these languages could
seem, at first sight, incomplete; in Dothraki, Per esempio, the word “thanks” is missing,
but that does not mean, that it is really incomplete. In Sicilian, there is not a term that
indicates “the typical snow of March”, but this dialect is considered complete anyway
because in Sicily this word is not necessary. Even Dothraki does not lack of
fundamental words for the community to express itself, because those they have are
enough for the communication among speakers. In the case of the difference written
before between Piedmontese and Sicilian, we are in a situation tied to the
environment and to the fact that regional Italian dialects are different, nonostante
they are all romance (neo-Latin) lingue. This diversity is due to the history of
Italian linguistic: It has produced several varieties of speaking, the so-called Italian
Babel, caused by social, political and cultural facts of the peninsula, where divisions
and removals marked reality and cultures, connected by Latin tradition (Gensini,
1982). Dialects are languages spoken at a local level by communities of speakers that,
a part from regional differences, share the same linguistic code, that of standard Italian
(Gensini, 1982). On the other hand, for what concerns the difference between
Dothraki and High Valyrian, they are two different codes spoken by two different
communities who live in the same continent and period of time, but who are made of
two different societies characterised by different cultures. In High Valyrian, per
example, there is a term to say “thank you” (“kirimvose”). This language was created
for the same fantasy world of Dothraki speakers, with the difference that the people of
Valyria have a cultural level extremely high, differently from the Lords of the Horses
(another name to indicate the Dothraki people), because their culture goes entirely
around these animals. This reflects on the language too; Per esempio, to translate “I
have already been here” the verb dothralat will be used, that means “to ride”, and not
“to be”, so the sentence literally translated will be “Ihave already ridden here” (anha
ray dothra jinne hatif ajjin). The lack of linguistic expressions of courtesy in Dothraki is
evidently due to the fact that nor courtesies nor thanks are provided for by their harsh
società.
99
Another property of languages is universality: As Romano (2010) scrive, it means
that it is not possible to find a human group, however small or isolated, that does
not use a system of verbal communication (P. 27). The author talks about human
groups so, even though he only refers to humans living on Earth, his explanation
can be perfectly adapted to whatever human being, wherever living. Valyrians are
an imaginary people, but in any case, they are human beings so this implies that
they use an oral system of verbal communication, as the existence of a certain
language implies that it is a form of expression of a folk. Infatti, a language would
not have any sense of existing if a people or a community, even imaginary, did not
use it.
If a writer wanted to invent a science fiction story set in the space, with aliens as
protagonists, he could take advantage from the fact that they are not humans;
pertanto, they could have a different system of communication. Per esempio, Esso
would be plausible that their interactions happen at a merely mental level. At this
point, any oral linguistic system would be useless, because the mind would be
enough for the communication, something that cannot happen with humans, Chi
need a linguistic code that can be shared in order to express their thoughts.
Talking about universality, the author specifies that the system of communication
used by human groups to express themselves is oral: Why not written? The answer
takes to the third property of languages, namely the priority of the speech; Infatti,
while every human uses the oral communication, this is not true for the written
uno. It is possible to demonstrate the truthfulness of this statement even just
thinking about history. When the writing system was created, humans had been
existing since thousands of years, but this does not mean that before writing they
were not able to communicate; they simply used an exclusively oral or gestural
system to interact.
In questo caso, for what concerns constructed languages, there is a difference because
they do the exact contrary: Primo, the conlanger writes the structure of the language
and only later it will be able to give voice to a community.
Mentioning that a language can have both an oral version and a written one,
another property has been identified: medium-transferability, namely the
possibility of transposing the verbal production of every linguistic system with
100
written codes and vice versa. The rules to respect to do this operation vary from a
language to another: In Italian, Per esempio, a sound corresponds to every letter. COME
G. Berruto and M. Cerruti (2011) reclamo, some systems of writing, as the Italian one,
are based on the phonemic inventory of that language and the Italian orthography
faithfully reproduces phonological units. Tuttavia, in some cases there is not a
biunivocal relation between sounds and graphemes (P. 54).
Perciò, it happens that there are some sounds without any graphic
rappresentazione (examples: /e/~ /Ɛ/ , /o/~ /ͻ/) and the same grapheme is used to
represent different phonemes (per esempio. “accétta” [aʹtː⨛etːa]
~ “accètta”[aʹtː⨛Ɛtːa]).
Sometimes combinations of graphemes are needed to represent phonemic
oppositions as, Per esempio, “ch” and “gh” before “i” and “e” (“china” [ʹkiːna] ~
“Cina” [ʹt∫iːna]), or different graphemes represent the same sound as “c” caro,
[ʹkaːro] and “q”, quadro [ʹkwaːdro]. Even in Russian, for example, a sound
corresponds to every letter. On the other hand, this is not true for English or
francese, which have a spelling rather different from the pronunciation, so sounds
correspond to sequences of letters and letters do not always have phonemic
correspondences. Conseguentemente, for these languages, the rules to follow in order to
pronounce correctly the words are rather difficult.
In constructed languages this property is taken for granted because, as already
explained, for these there is a priority of the written over the speech and not the
contrary, so obviously once written the language it will be possible to start
speaking it.
Another characteristic explained by Antonio Romano (2010) is displacement;
thanks to this property, it is possible to communicate with other human beings
even about referents that are not present in the physical space where the
conversation is taking place or that happen in a time chronologically distant from
the conversational moment. For talking about a tree, we are not compelled to
indicate one in order to make our interlocutors understand what we are referring
A, because they know that the word “tree” refers to something precise and, only
hearing it, in their mind their idea of tree will form. If this mechanism does not
start, it means that the interlocutors do not know the meaning of the word; it will
be enough to explain them what it refers to or to provide them with the translation
101
in a language they know so that the concept will be clear. Ovviamente, all this is
possible even with constructed languages: The only necessary condition is to know
what to think about at the moment we listen to a certain term. A questo punto, è
worth to mention briefly an important glottologist who revolutionised linguistics:
Ferdinand de Saussure. It is important to mention him in this moment because, COME
Berruto and Cerruti (2011) remind, he provides us with the principles of new
linguistics, called general, thanks to the Cours de linguistique générale; it is a
posthumous work where his students of the University of Geneva gathered, In
1916, his lessons. Starting from these principles, it is possible to highlight a
distinction that will better clarify the linguistic property of displacement.
As Romano and Miletto (2010) specify, Saussure claims that linguistic signs
(namely the elements that two interlocutors exchange during a conversation) Avere
two faces: the signifier and the signified. The first one is the most material one, IL
support of the message, and it could be vocal (made of sounds that interlocutors
deliver), or alphabetic (based on graphs and graphemes). The second one is
immaterial and refers to the concept that the word wants to transmit. It is precisely
thanks to the latter that the displacement is possible because words, through their
physical aspect (the signifier) refer to a certain concept (the signified), so they can
be understood even if the interlocutor does not have the indicated referent nearby
or in view.
Finalmente, another important property of languages is the cultural transmissibility: COME
Berruto and Cerruti (2010) reclamo, it simply consists in the ability of human
communities of transmitting as a tradition their own language to the future
generazioni. Di nuovo, this is applicable to “human communities”, making it valid even
for constructed languages because, although in a fictional world, they are spoken
by human beings as well as natural languages.
1.3 Constructed languages: classification
Until now, two types of constructed languages have been analysed: Those created
for literary purposes and IALs, invented instead with the aim of easing
international conversations and universal dialogue, as Berruto and Cerruti (2011)
remind. Tuttavia, there are even other reasons why these languages are
102
planned, according to which they acquire different features. Perciò, to order the
ideas, it is necessary to categorise the various types of constructed language.
There are several ways to do this, each one giving the possibility of concentrating
more on a particular aspect: Adopting, Per esempio, a classification in chronological
order, there will be more attention on the various historical contexts in which some
given languages have developed and on their evolution through time. Un altro
possible classification considers languages according to the aim that they were
created for; being the type of categorisation that offers a more complete vision on
the various typologies of languages, è, così, the one presented and analysed in
this dissertation.
It is necessary a premise in order to explain the difference among the so-called a
priori, a posteriori and mixed languages (Gobbo, 2009; Albani & Buonarroti, 2011).
A priori language is a completely independent language, or rather which is
created without taking those naturals as a starting point;
A posteriori language is exactly the opposite, namely it is a language that is
constructed being based on phonology, grammar, syntax or other features of a
natural language;
A mixed language is a constructed language obtained partly being based on a
natural one, partly creating it from nothing.
Clarified these three differences, the following scheme, elaborated from the model
in Aga Magéra Difúra (Albani & Buonarroti, 2011, pp. 12-13) and its analysis, can
be useful to exemplify the classification of constructed languages.
When studying a constructed language, one of its first aspects to consider is the
reason which it was created for, because it will determine, together with other
factors, the final result. Perciò, here there are the sacred and non sacred
lingue. As Albani and Buonarroti (2011) specify, the first ones allow the
communication with the divine, whereas the others are a group of languages that
includes on one hand the projects for social communication, whereas on the other
hand the experiments more or less artistic created only for a recreational purpose
(p.8).
103
Figura 1: Classification of constructed languages– Schema re-elaborated from Aga Magéra Difúra
(Albani & Buonarroti, 1994/2011, pp. 12-13)
Briefly mentioning the first ones, which shall not be discussed anymore, they are
divided in structured, as Balaibalan, and not structured, as glossolalia. Balaibalan is
a constructed language created in the Islamic mystical environment in the 15th
century, probably by an Arab sheik. This language is considered complete, Perché
it has its own grammar, syntax and glossary, whose words are mostly of Persian
and Turkish origin. Alessandro Bausani considers as the first real invented
language in the educated world (Bausani, 1954; Bausani, 1974, pp. 89 – 97, In
Albani & Buonarroti, 2011, p.55).
Glossolalia are instead pseudo-languages simply invented matching senseless
parole; in sacred and religious environment, as Albani and Buonarroti (2011)
104
remind, are considered as glossolalia the ways of talking of prophets because they
do not personally choose the words, but they are guided in this by the Holy Spirit
and they do not understand what they say. For Christianity, glossolalia is a gift tfor
the believer has the possibility of speaking a language he does not know. Examples
of glossolalia are prayers of Pentecostalism, or past missionaries, or mediums in a
trance status.
D'altra parte, non sacred languages can be created for a recreational or social
communication purpose; given that there are several examples of constructed
languages for both these categories: A selection has been done, analysing only
those considered most important.
Among the languages created for the purpose of social communication, ci sono
hybrid languages (for example pidgins), cryptographies, abbreviated languages
(stenography), logic-mathematical languages and IALs, already mentioned before.
The IALs can be defined a priori, a posteriori or mixed. Among those a priori, Là
are philosophical languages, namely systems of conventional signs that have the
aim of eliminating ambiguities and misunderstandings produced by natural
lingue. Per questo motivo, they are often associated to the term “perfect language”
as Umberto Eco (1993) reminds: “[…] The dream of the perfect language refused to
die” (P. 293).
Changing category, there are a posteriori languages: A much known example is
Esperanto, language created by Lejzer Ludovik Zamenhof at the end of 19th century.
This famous IAL project is based on Romance, Germanic and Slavic languages, COSÌ
this makes it an a posteriori language, and it had a lot of success. Given that this
language will be analysed more specifically later, the last type of IAL will be
presented here: mixed languages, as Volapük. This one as well is a project of
international language and it was born approximately in concomitance with
Esperanto, but it does not share its success because it was too difficult to
understand and it was abandoned for this. It is considered a mixed system because
it is based on English, Grerman and Latin-Romance languages, but it also has a
typical feature of a priori languages, namely the choice of its creator, Johann Martin
Schleyer, of eliminating “r” (cfr. cap. 1).
Afterwards, there are logic-mathematical languages (or programming languages),
105
as well created for the aim of social communication. They are a whole of characters
that form words, expressions, sentences and larger aggregates (Albani &
Buonarroti, 2011, P. 340) used in information technology. These particular
languages are characterised by the absence of ambiguity and the possibility of
being performed and they have a precise and severe syntax. Some examples are the
COBOL (Common Business Oriented Language), code created in 1959 with a
grammar very close to the English natural language, because it was specifically
thought for administrative and commercial applications, or the more recent Java,
arisen in 1995 and more distant from English even though this language is still at
its basis.
Poi, we can find abbreviated languages, namely systems of signs that act as a
linguistic surrogate of natural languages. A much common example are the
acronyms or initials as etc., prof., or UNESCO, but even stenography, a fast and
synthetic writing that uses signs and abbreviations to formulate words, is part of
this category. The invention of this code is conferred to Marco Tullio Tirone, Chi
used a similar system to note in a rapid way the orations of his patron Marco Tullio
Cicerone. Someway similar to stenography, there is the cryptography, namely the
secret writing, obviously used to produce a message comprehensible only to those
who know the used code (Albani & Buonarroti, 2011).
The last part to examine for what concerns languages created with the aim of social
communication is that of hybrid languages: They are the result of a mixture of
various languages. The most common example are pidgins or creole languages,
which were born during the triangular commerce and slave trade. They are the
result of the contact between two or more different languages as the slaves’
lingue, natives’ languages and a colonial language as Spanish, Portuguese,
francese, Dutch or English; the colonial language is considered “lexifier” for its
strong influence on the new language that is arising. The main difference between
pidgin and creole language is that the latter derives from the first; they both
originate from the encounter of various languages, but when pidgin starts to be
spoken by natives of new generations and the strongly simplified grammar evolves
towards more complex forms, it will be possible to call it creole. Tuttavia,
despite this evolution, the language will continue to be very simple. The isles of
106
Cape Verde, Haiti, the Antilles or the isles Mauritius and La Réunion are some
places where nowadays varieties of creole are spoken, as specify Albano and
Buonarroti (2011).
Finalmente, we can find non sacred languages created for an expressive or recreational
purpose: The most common are artistic-literary ones, which develop not just in
letteratura, but even in cinema, theatre, music or in comic strips. Solitamente, they are
languages created for fantasy or science fiction genres, because they give voice to
aliens or communities who live in imaginary places. Two examples, already
mentioned, are Klingon and High Valyrian: Both created for the cinema